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NON E’ un bel vedere. La votazione al Senato non ha dato al governo una quarta gamba: al massimo una gamba di legno tipo quella che si vedeva nei vecchi film sui pirati, nemmeno una protesi moderna. Dunque si rimane nel limbo. Tutto è congelato da una situazione in cui nessuno ha il coraggio di fare una mossa razionale.

Conte può raccontarla come una favola, ma una maggioranza degna di questo nome non solo non c’è, ma non si vede come potrebbe costruirla. Per scambiare un pacchetto di voti racimolati per lo più da personaggi in cerca d’autore come un “partito” di ispirazione europeista, popolare, liberale, socialista bisogna strapparsi via gli occhi. I voti che al Senato assommavano l’altro ieri i tre partiti superstiti della coalizione era di 132, mentre l’opposizione di centrodestra ne contava 130: senza il trasformismo di Rossi e Causi (FI) all’ultimo minuto le due formazioni sarebbero esattamente pari.

Il risultato è che tutto si gioca su una settantina di voti dispersi che non si può sapere come si schiereranno in futuro, né possiamo prevedere come lo faranno dalle loro storie passate. La conclusione, amara, è che in questo contesto nella Seconda Camera non c’è maggioranza politica di alcun tipo, ma solo un terreno aperto per costruirsi maggioranze aritmetiche pescando nelle nebbie, favorite dal fatto che non si sa come sarà il quadro quando in un modo o nell’altro si andrà al voto. Con buona pace di quelli che si affannano a trovare precedenti, un quadro del genere è un inedito assoluto. Proprio perché siamo in un momento di grande emergenza la situazione risulta molto preoccupante.

Quando si è messi in questo modo scivolare verso il mercato politico per acquisire forze di complemento è inevitabile. Da una parte e dall’altra, ma è scontato che chi gioca sedendo ai tavoli del governo è favorito perché nell’immediato ha più da offrire. Forse sul medio periodo con le elezioni in vista non sarà così, perché la contrazione dei seggi disponibili renderà impossibile promettere credibilmente posti per partiti che o vedranno ridotti i propri scranni o al massimo conserveranno quelli che hanno adesso. Chi è in crescita nei sondaggi potrebbe essere più attrattivo, ma si sa che le promesse di seggi in politica valgono meno di quelle dei marinai.

Dunque può muoversi meglio chi ha da offrire qualcosa nell’immediato: posti di governo e di sottogoverno, dei primi magari ce ne sono un numero limitato, ma sui secondi si può usare più inventiva. Naturalmente questo apre scenari inquietanti, perché si rischia di vedere in vendita l’argenteria di famiglia (dello stato) senza preoccuparsi molto in che mani finirà. Pensate anche solo a due posizioni delicate come il ministero della famiglia e quello dell’agricoltura. Sono due posizioni che riguardano ambiti profondamente toccati dalle conseguenze della crisi pandemica, tanto nell’oggi quando nel domani quando la crisi economica e sociale accentuerà i suoi morsi.

E peggio potrebbe essere per il sottogoverno, che è da sempre il ventre molle della politica italiana, il luogo dove si sono originate le distorsioni e le inefficienze che oggi paghiamo caro. Ci si chiede se il presidente Mattarella può accettare tutto questo. La domanda necessita di una risposta articolata, soprattutto per non cadere nel gioco demagogico di delegittimare una delle poche istituzioni di garanzia ancora in piedi chiedendole atti che non può compiere. Dunque il Capo dello Stato non ha alcun potere di rifiutare l’esito di un voto parlamentare ed è bene che sia così. Si provi ad immaginare il rischio che si correrebbe se si desse ad un inquilino del Quirinale la facoltà di leggere a suo piacimento il significato di un voto delle Camere. Quando si stabiliscono i poteri bisogna sempre pensare che potrebbero finire in mani non vogliamo dire cattive (caso estremo), ma semplicemente meno razionali e controllate.

Certamente Mattarella può invitare gli attori politici a confrontarsi con la realtà profonda e non semplicemente con la superfice degli accadimenti. Lo fa sempre e lo farà anche questa volta, ma non può spingersi più in là. Ha invece un potere di co-decisione sulla scelta dei ministri e nel caso di un rimpasto lo eserciterà. Se fermò, per ragioni di politica europea, la nomina al MEF del prof. Savona, che pure era un economista di vaglia, vogliamo pensare che non lascerebbe passare all’agricoltura un tizio che si dice volesse curare la xylella col sapone. Questa potestà presidenziale sulle nomine offre qualche garanzia perché nel mercato acquisti non si vada oltre certi limiti, né per il governo, né, anche se è meno facile esercitare il controllo, per il sottogoverno.

Insomma si apre una fase più che delicata della nostra politica, che vedrà inevitabilmente concentrarsi di più sulla soluzione della questione governativa che non sui notevoli problemi che abbiamo davanti. Si incrementerà la battaglia della comunicazione, avvelenando ulteriormente lo spirito pubblico già abbondantemente provato, e spingendosi sempre più ad annunci spot poco verificabili e meno ancora credibili.

Quando il premier, dopo essere stato attaccato da Renzi sul fatto che una serie di grandi opere non hanno ancora i commissari che le avviano, annuncia in replica che li ha nominati or ora, abbiamo il quadro di come si tenderà a fare politica da oggi in poi. Sinceramente speriamo di essere smentiti.


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