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Il duomo di Milano

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I maligni dicono che questa rivalità sia iniziata quando Vittorio Emanuele II e Garibaldi non avevano neanche fatto in tempo a girare i cavalli dopo la storica stretta di mano a Teano. È lì che è nato tutto: nordisti e sudisti, muro contro muro, fino a finire a “polentoni” contro “terroni”. Per la verità sono stati loro a cominciare: mille camicie rosse mandate allo sbaraglio, nascondendo la mano e le ambizioni sabaude del grande Piemonte, non sono una cosa da niente. E gli italiani? Ferite e lacerazioni non si risolvono con meno di due secoli. Il servizio di leva, le fabbriche e la televisione ci hanno provato a creare un popolo che avesse qualcosa in più in comune che la spartizione di una fettuccia di terra a spigolo nel Mediterraneo.

E se un minimo di condivisione della lingua lo si deve alla Rai, il resto è rimasto più o meno com’era, pregiudizi, discriminazioni e insulti compresi. Poi da 30 anni in qua, sono arrivati quelli del Carroccio a rimestare le differenze e a scavare crepe, gettando sulla Questione meridionale anche una patetica e inquietante ombra razzista. Ma è teatro, solo teatro. Perché poi la Storia si prende le rivincite e rimette sempre le cose a posto. «Si è sempre meridionali di qualcuno», dice il professor Bellavista chiuso a lume di candela in ascensore con sciur Cazzaniga. E così 180 anni di pregiudizi incartati con la peggiore retorica padana, finiscono per diventare anacronistici. A forza di prendersela con i terroni, l’identità nordica è andata a farsi benedire. A Milano il cognome più diffuso sull’elenco del telefono è Hua, non proprio meneghino; e nella francofona Valle d’Aosta prevalgono quelli calabresi. Il mondo cambia sotto i nostri occhi e non aspetta nessuno, neanche quelli dei prati di Pontida con le ampolle dell’acqua del Po. Tra minacce di secessione, esibizioni di superiorità, presunzioni e ricchezze cumulate nell’ingiustizia delle spartizioni dei bilanci statali, il Nord si è ritrovato dentro l’incubo incredibile del coronavirus. I numeri sono dalla parte loro, ma l’identità? Esistono ancora i settentrionali?

Certo che ci sono, ma sono minoranza. Quanti sono i torinesi, i milanesi, i veneziani, i genovesi di sangue puro da generazioni e generazioni? Pochi, una comunità sopraffatta in casa, malgrado tutte le misure e gli esorcismi per tenere a distanza gli «africani dello Stivale». Il Nord ha vinto tutte le battaglie ma ha perso la guerra con «gli inferiori». Ne sono consapevoli soprattutto i passeggeri e i guidatori del Carroccio. Cinema, teatro, televisione, letteratura parlano più dei vinti che dei vincitori. E così il riccone di provincia veneto o lombardo deve sorbirsi gli effetti e i prodotti di una cultura bollata come minore, insignificante, impalpabile. Rosicano, e come se rosicano. Gli alfieri della Lega più volte hanno stuzzicato l’argomento: basta con il terrone Camilleri o De Giovanni o Saviano. «Basta con queste storie che parlano una lingua che si fa fatica a capire». Bisogna pure comprenderli, poverini. Ma è andata così. I vinti si sono riscattati con i vincitori. Gli hanno lasciato le cifre del conto in banca e delle carte di credito. I numeri delle statistiche economiche, il ruolo di locomotiva dello sviluppo, i servizi più efficienti. L’agiatezza non sempre produce idee culturali, soprattutto quando è finalizzata a un edonismo fine a se stesso, senza neanche la spinta a chiedersi come e perché. Essere primi e accomodati nel benessere non produce sempre voglia di capire, crescere, raccontare. Il Nord è quasi sparito dalle storie, pur avendo i cinema, le librerie, i teatri e gli indici di lettura migliori.

Il vecchio Sud ha rimontato il distacco sull’analfabetismo, ha saputo stringere i denti e imparare da chi ha accolto i suoi figli con la valigia di cartone. Si sono integrati, hanno orecchiato le cadenze e gli accenti. Fino a diventare una comunità che guarda al resto del paese. qualche volta, dall’alto in basso. Negli stadi di Torino, Bergamo, Verona, Brescia i cori contro i tifosi meridionali arrivano anche da altri sudisti trapiantati al Nord. La voglia di identità fa questi scherzi. La rivincita dei padani. Creare dai terroni i nuovi polentoni. Due Italie in una e non più una in due. Quando scompariranno dialetti, tradizioni, differenze, avremo forse gli «italiani», un Paese più omogeneo, ma chi ha detto che sarà anche migliore?


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