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“Si parla sempre e solo dei poveri. Ai ricchi chi ci pensa?” ha detto un consigliere della Lega, lamentandosi della “disparità di trattamento”. Un discorso che in passato nessuno avrebbe osato pronunciare e forse nemmeno pensare.

Decenni di malagestione di Stato hanno consolidato l’idea che la popolazione si divida in due gruppi: chi tiene i soldi e chi no.

Il divario tra gli uni e gli altri aumenta ogni giorno a causa della scarsità di meritocrazia, decretando l’immutabilità delle sorti: chi nasce ricco si arricchisce sempre più tramite un sistema di strategie e favori; chi nasce povero muore povero senza poter metter a frutto le proprie capacità.

Come dice il proverbio, “Piove sempre sul bagnato”.

Così può accadere che qualche fortunato, seduto comodo al riparo là dove non piove, si chieda: perché mai dovremmo preoccuparci di tutelare chi è più sfortunato?

Per obbligo di coscienza? Per beneficenza? E se qualcuno la coscienza non l’avesse e non aspirasse alla santità? Soltanto se si va al di là della retorica, ci si accorge che tutelare le fasce più fragili della società non è un atto di bontà ma di lungimiranza, non è un atto di altruismo ma di sano egoismo: a furia di piovere sul bagnato, c’è la certezza di straripamenti e inondazioni. L’ingiustizia sociale alla lunga scatena fiumane anche violente. Nessuno resta illeso circondato dalla rabbia e dalla disperazione di quanti faticano per tenersi a galla, vedendosi negati la riva e il futuro.

Garantire ai poveri la possibilità di migliorare onestamente la propria condizione è il miglior investimento per l’umanità tutta: a inventare l’ombrello non è quasi mai chi è vissuto sempre al riparo. In genere non sono i figli della bambagia, ma i figli della difficoltà, quelli più capaci di inventare, scoprire, risolvere, a volte per un misterioso dono innato, a volte perché la sofferenza ha insegnato loro qualcosa che nei libri non si trova. Da quello che era uno svantaggio sociale, ne traggono un vantaggio: la pietra di scarto diventa pietra angolare, come dice la Bibbia. È un principio valido in ogni settore. Pelè, nato nell’assoluta povertà di un villaggio brasiliano, è diventato un campione dentro e fuori dal campo. Marguerite Duras, che da bambina aveva a disposizione soltanto un libro – “I miserabili” di Victor Hugo – lo lesse e lo rilesse fino a impararlo a memoria, e diventò una scrittrice dallo stile inimitabile. Alexander Fleming, figlio di contadini, riuscì a diventare medico e inventò la penicillina, segnando l’inizio dell’era degli antibiotici e vincendo il premio Nobel. Le società hanno guadagnato o no dal coltivare queste persone? Quanti figli di contadini oggi hanno la possibilità di proseguire negli studi, laurearsi, avere un lavoro stabile che gli permetta di portare a termine le loro ricerche? E se un povero, rimasto immeritatamente senza contratto di lavoro, possedeva gli strumenti intuitivi e cognitivi per scoprire il vaccino per il coronavirus? Andava o no tutelato per il bene dell’intera umanità? Se Anna Frank fosse stata tutelata, chissà quali altre preziose parole ci avrebbe donato, perché certe parole sono un dono, ci riconducono alla bellezza e possono davvero salvare chi legge.

Per questo è importante riscoprire e coltivare la meritocrazia, superando ogni distinzione di classe sociale. Tutti dobbiamo tornare alla cultura del merito, che negli ultimi decenni è stata messa in ombra dal finto concetto di successo. Il merito porta alla gloria, all’affermazione di un valore durevole, il successo porta alla fama di facile consumo. Il successo non pretende che il riscatto avvenga in maniera onesta, il merito sì. Dobbiamo tornare a una società che non ci distingua in base a ciò che abbiamo, ma che ci permetta di avere e che soprattutto ci permetta di essere.


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