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“La donna”, si legge in un passo del Talmud, “uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore ma dal lato, per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata”. È tempo di chiederci, però, da dove salti fuori molto del materiale che sulla donna circola online. Di certo non viene da quella stessa biblica costola, sotto la quale una donna può dirsi amata o protetta; di certo non viene dalla mente, anzi.

Del luogo fisico da cui trae origine il vilipendio della figura femminile non v’è ancora traccia, però a quel vilipendio è stato dato quantomeno un nome: revenge porn. Il revenge porn consiste nella condivisione pubblica di materiale esplicito e privato altrui senza il consenso della persona che compare in quel materiale. Si può trattare di foto, video o chat che riprendono la persona in atteggiamenti intimi. Si parla, quindi, di un reato a tutti gli effetti, disciplinato e punito dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019.

Tra i fautori e le vittime del revenge porn corre molto spesso un legame stretto e importante, considerata la portata intima del materiale che ci si scambia; in uno schema che potremmo definire “recidivo”, il revenge porn si configura nel momento in cui uno dei due partner, volendo vendicarsi del compagno o della compagna che pone fine alla relazione, diffonde online sue foto e video espliciti. Da qui l’espressione, che per l’appunto è traducibile in italiano con “porno-vendetta” o “vendetta pornografica”. Il fatto che una parola come “vendetta”, che già di per sé si trascina dietro retroscena oscuri e umanamente discutibili venga associata alla parola “pornografia”, pone la configurazione del reato su un piano estremamente delicato e pericoloso: si sa, del resto, che un contenuto postato online diventa una scheggia impazzita, un prolungamento della nostra esistenza consegnato nelle mani di qualunque altro utente, una trappola a cielo aperto; difficile, praticamente impossibile, fermare la corsa di un video o una foto postata sul web, peggio ancora se si tratta di un contenuto dal carattere estremamente privato.

In questi giorni assistiamo all’ennesimo episodio di revenge porn ai danni di una maestra d’asilo di Torino, che ha visto i propri video e le proprie foto (inviate privatamente all’ex compagno) finire, per mano del suo ex partner, in un gruppo Whatsapp. Il materiale ha circolato fino a raggiungere la mamma di uno dei piccoli alunni della maestra e perfino la dirigente dell’asilo, che l’ha licenziata in tronco. Obsoleto discutere sulla legittimità o meno di inviare materiale strettamente intimo a qualcuno, seppure possa considerarsi un gesto compiuto con leggerezza e fiducia. Anacronistico porre la situazione sul piano etico-bigotto del “non credevamo che una maestra potesse fare certe cose”, semplicemente perché in questo come in migliaia di altri casi già visti e sentiti, incolpare la vittima di una violazione (o di una violenza) subìta è un crimine anche peggiore di quello che può essere un atto di revenge porn. Perché se i reati, di per sé, dividono la popolazione tra chi li ha fatti e chi non li ha fatti, puntare il dito su una vittima definisce chi è rimasto escluso dalla suddivisione precedente: descrive, cioè, tutta quella fetta di pubblico (mediatico e non) che, del tutto esterna alle dinamiche e rigonfia di giudizi e pregiudizi, si arroga il diritto di relegare la maestra di Torino di turno tra le poco di buono, tra le non raccomandabili; si aggiudica il dovere di ricalcare il contorno della figura della maestra a penna, indelebilmente, per poterle dare la forma che più gli aggrada e non quella che possiede quella donna di per sé.

Al momento, il video della maestra risulta il contenuto più cercato sul web: una notizia che parla da sé e che sottolinea quanto la mancanza di empatia non sia prerogativa solo di chi diffonde il materiale. Alimentare la ricerca di questi contenuti alimenta la pressione sulla donna vittima di revenge porn; curiosare morbosamente in questo turbine mediatico significa strapparsi di dosso ogni indicatore di umanità rimasta. Sulla bilancia di una società che ormai oggettivizza le donne confinandole nel ruolo di spettacolino privato di talune chat, pesa di più il pudore di chi invia materiale intimo a una sola persona o la colpevolezza di chi, quel materiale destinato a rimanere privato, lo diffonde ovunque per il puro gusto di danneggiare il prossimo?

Cosa non abbiamo ancora capito delle relazioni umane, se siamo pronti a togliere il lavoro a una insegnante e a lapidarla virtualmente, tralasciando di gran lunga di considerare la vorace crudeltà di chi conosce (o immagina) le conseguenze del revenge porn e nonostante questo lo pone ugualmente in essere? Siamo così abituati alle guerre mastodontiche, combattute sui piani militari e sanitari, da dimenticarci di tutti quei potenziali piccoli conflitti che però hanno una cassa di risonanza immensa: l’opinione pubblica, i giornali, i social network. Abbiamo disimparato il rispetto e lo abbiamo sostituito con la smania di potere, quella che scaturisce quando sappiamo di essere i soli detentori di materiale compromettente e scegliamo di deciderne le sorti a spese altrui. Che sia la testa, allora, a fermare ciò che compromette il frutto della costola; che sia l’empatia a prevalere sull’effimera scarica elettrica di potere che ci scuote quando stringiamo tra le mani qualcosa che potrebbe distruggere la vita di qualcuno, e a cui prestiamo poca attenzione perché quella vita non è la nostra.


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