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Illustrazione di Roberto Melis

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Agosto 1973: giovane universitario, decido di “togliermi” il fastidio della leva prima della tesi e vengo spedito alla Scuola Trasmissioni dell’Esercito di San Giorgio a Cremano, periferia metropolitana di Napoli. Dopo alcune morti sospette tra Torre del Greco e Portici, il 28 si diffonde l’allarme: le morti sono dovute a infezione da vibrione colerico.

Il giorno 29, “Il Mattino” apre la prima pagina con i dati, sette morti e 50 ricoveri all’ospedale “Cotugno” di Napoli; il 31 i ricoverati salgono a 220, i morti a 14. Il colera nel 1973? Prima incredulità, poi panico tra la popolazione, come oggi; polemiche tra superesperti allarmisti e colleghi negazionisti, come oggi; fantasie catastrofiste, come oggi (l’assessore ai cimiteri di Napoli accusato di nascondere centinaia di cadaveri per negare l’emergenza).

Nella caserma di San Giorgio siamo oltre duemila e vengono prese misure di confinamento: blocco delle licenze e della libera uscita, rafforzamento del servizio di guardia per impedire uscite abusive. Tutti chiusi dentro per trentadue giorni di lockdown che non finiscono mai. Non esistono ancora i cellulari e in caserma ci sono quattro telefoni a gettoni: file di ore per sentire la “ragazza” o la famiglia, due/tre minuti al massimo perché i gettoni sono rari (e qualcuno riesce a rivenderli sovrapprezzo).

Il Comando decide che duemila ventenni rinchiusi hanno bisogno di svago e in piazza d’armi allestiscono un maxischermo. Qualcuno sceglie però di proiettare i film del Decameron (“Metti lo diabolo tuo ne lo mio inferno”, “Si salvò soltanto l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro”) scatenando crisi ormonali diffuse: per reazione, dosi di bromuro nel caffelatte mattutino per calmare i sensi (forse non era vero, ma così si vociferava).

La salvezza arriva dai vaccini (come oggi, forse): lentezza nel predisporre i presidi sanitari (come oggi per i tamponi), disorganizzazione nella distribuzione (come oggi per il vaccino antinfluenzale). Poi intervengono i militari statunitensi della VI Flotta e impiegano le siringhe a pistola già usate per le vaccinazioni di massa in Vietnam: una gigantesca operazione di profilassi che raggiunge oltre l’80% della popolazione della provincia di Napoli. In caserma siamo tra i primi, qualcuno ha un principio di febbre che passa subito, importante è poter uscire: il 1^ ottobre libera uscita, di corsa alla Stazione Garibaldi che è piena di telefoni a gettoni. Il 12 ottobre l’allarme epidemico finisce.

Storia che ritorna (l’ho pensato spesso in questi mesi), analogie di paure e di vizi. Ma anche differenze. Non ricordo nessuna speculazione politica; nessuna contrapposizione tra governo e regioni (Ministero della Salute e Regione Campania lavorarono insieme); soprattutto, nessun cittadino napoletano No Vax. Anzi, a Napoli ci furono manifestazioni di protesta per la carenza di vaccini. Confronti assoluti non se ne possono fare, perché le dimensioni furono diverse (un migliaio di ricoveri, 24 decessi) e il vaccino anticolera esisteva già, ma una considerazione di fondo si impone: in 50 anni ci siamo troppo abituati ad affermarci con la polemica e a ragionare con i “No”. Forse alla fine dell’emergenza scopriremo di essere diventati un popolo dalla maturità civile asintomatica. Se diventasse una consapevolezza da cui ripartire, qualcosa di positivo il Covid lo avrebbe lasciato.


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