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Paul Cézanne, Ritratto di Gustave Geffroy

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Sappiamo di genetica e di Dna, e tuttavia non conosciamo con certezza la materia (e la sua misura) che combinandosi renda due sorelle una molto bella e l’altra bruttina, e non sappiamo perché una mano è capace in un battibaleno di disegnare con estrema facilità i lineamenti di un volto o di un paesaggio, e un’altra assolutamente no. Potete frequentare tutte le accademie di questo mondo ed avere il più versatile dei maestri, ma non farete un solo progresso sulla via dell’arte. È possibile, se ci si impegna, diventare un ottimo critico, ma mai un pittore.

Sappiamo invece con certezza che per fare un vero artista sono necessarie tre cose: il talento, lo stile, l’originalità. Ho usato un sostantivo volutamente incerto e generico perché la triade a cui mi riferisco è costituita da elementi immateriali e dunque visivamente e tattilmente incorporei.

Trattandosi di elementi immateriali, è fin troppo ovvio dedurne che essi non siano riproducibili, né è possibile renderli seriali. Possono essere copiate da abili falsari le opere che da quella triade discendono (e difatti in pittura i falsari e i copisti abbondano come i contraffattori delle firme), ma crearle no. E allora è più che legittimo – a mio parere – che Alfio Squillaci non abbia alcuna simpatia per le scuole di scrittura creativa e abbia scritto un saggio per auspicarne la chiusura.

Il suo agile pamphlet: Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (con tanto di punto esclamativo), pubblicato dalle edizioni Gog, tornerà utile a quanti decideranno di intraprendere quello che in diverse occasioni ho definito l’insano mestiere dello scrittore e una vera e propria dannazione. Squillaci si chiede come sia possibile insegnare in una scuola di scrittura: talento, stile e originalità, dal momento che si tratta di qualità (o doni naturali?) strettamente individuali; così personali ed esclusive quasi come le impronte digitali.

E ci ricorda che i più talentuosi scrittori che noi ammiriamo non hanno frequentato alcuna scuola di scrittura, a partire dalle più lontane e antiche origini di questa forma di espressività. Assodato che la maggior parte di queste scuole funzionano come vere e proprie batterie per “polli di allevamento” (la creazione di un possibile scrittore di successo) condite con una discreta dose di conformismo – il libro vi mostrerà gli ingredienti -, come si evince dal discorso di Squillaci, sorge spontaneo porsi la domanda: da chi imparare, dunque? Personalmente consiglierei di immergersi a fondo nel pozzo nero della vita; ci si contamina e molte scorie restano attaccate alla pelle e all’anima.

Certo bisognerà avere una sensibilità accesa per sentire le ferite sulla pelle e un’anima disposta ad accoglierle: “Nessuna cosa ha un’anima se non ne avete una” recita un mio aforisma giovanile; ma la pensava così, e molto prima di me, lo scrittore russo Vasilij Ròzanov: “Non avete un’anima, signori miei. Perciò non vien fuori nemmeno una goccia di letteratura”. Occhio dunque all’anima, prima di intraprendere l’avventura dello scrivere. Perché ha ragione Squillaci, è un mestiere che non vi potrà insegnare nessuno, perciò meditate queste sagge parole di Ugo Ojetti: “Quello dello scrittore è il mestiere più libero e più duro, in cui nessuno ti aiuta tranne qualche morto”.  Che sia un mestiere duro, anzi durissimo, concordo; che sia il più libero non sono più tanto sicuro. L’industria culturale e la mercificazione, la società dello spettacolo e i suoi riti, lo hanno reso tutt’altro che libero.

Ma Ojetti ha ragione: solo qualche trapassato può venirti in soccorso perché ha manipolato la materia prima di te e ha tracciato la via. E allora dovete accogliere i suggerimenti di Squillaci: leggere, leggere, leggere, soprattutto i morti come dice Ojetti, e aggiungerei gli autori veri, ricordandosi sempre che “La cultura ha guadagnato soprattutto da quei libri con cui gli editori hanno perso” come ha scritto Thomas Fuller. Magari vi tremeranno i polsi e desisterete, ma di certo non avrete sprecato il vostro tempo: se non avete imparato a scrivere, avete almeno imparato a leggere e a capire. Parafrasando la battuta finale con cui Squillaci chiude il suo libro, se non avrete imparato a ballare il tango, avrete almeno imparato le mosse. Da parte mia, non posso che ribadire quanto ho più volte detto: dopo una lunga vita di scrittura ho imparato solo come non devo scrivere. È poca cosa?

Forse sì, è un misero bottino ma andava messo in conto.


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