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Kazuo Ishiguro

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“Tu credi al cuore umano?”, chiede il padre di Josie, una ragazzina che sta morendo di una grave malattia, a Klara, un’intelligenza artificiale dall’aspetto anch’essa di bambina, cui è stato chiesto di rimpiazzare Josie quando accadrà.

“Non intendo semplicemente l’organo, è ovvio. – continua il Padre – Parlo in senso poetico. Il cuore umano. Tu credi che esista? Qualcosa che rende ciascuno di noi unico e straordinario?”

Un tempo c’era l’anima e l’assoluta fiducia dell’uomo nell’esistenza di qualcosa che lo distinguesse, rendendolo irripetibile e dotato di senso per il solo fatto di esistere. Kazuo Ishiguro,

Premio Nobel per la Letteratura nel 2017, è nato in un tempo di macerie, in cui si raccoglievano i pezzi dei giganti crollati, pace, alleanze, stati, religioni, e si osservavano gli abissi dalle crepe apertesi nel corso delle due guerre.

Ishiguro è nato negli anni 50 del 900 a Nagasaki e, pur se immigrato in Inghilterra a soli 6 anni, dove ha vissuto poi il resto della sua vita, forse non è un caso che la sua città natale sia stata una delle crepe più grandi che gli esseri umani hanno potuto spalancare.

Il suo non è più il tempo delle religioni e i dilemmi provocati dagli abissi devono essere risolti dagli uomini e tra gli uomini, primo fra tutti il dilemma che pone il Padre a Klara, nell’ultimo libro pubblicato da Einaudi: cosa rende l’uomo uomo? Ed è veramente qualcosa di così irriproducibile?

Questa è la domanda di fondo che anima tutta l’opera di Ishiguro, e ogni volta Ishiguro ne tenta una risposta, ma pare più per volontà di escluderla che per trovarne una definitiva.

Nei suoi romanzi, ciascun personaggio si trova a un certo punto davanti all’interrogativo sulla natura e l’unicità degli uomini, sia dal punto di vista individuale che collettivo, rappresentata di volta in volta: avere un passato, serbare memoria, stringere relazioni, desiderare, amare.

Con delicata e straziante spietatezza Ishiguro sfoglia le illusioni che da sempre ci poniamo a copertura di qualcosa che ancora non sappiamo, o non vogliamo sapere.

In Quel che resta del giorno, il maggiordomo Stevens spreca la sua esistenza e l’amore della sua vita, in ossequio al senso del dovere e alle convenzioni, e solo nel finale ci lascia intravedere il suo cuore in pezzi, che né il crepuscolo della sera né la “tragica vastità del suo desiderio” potranno salvare, restituendogli integrità, senso e tempo.

In Non lasciarmi i giovani protagonisti vivono l’infanzia e l’adolescenza in un collegio ma a un certo punto apprendono di essere cloni di una persona originaria, creati e allevati per restituirle pezzi, man mano che la vita la usurerà.

I cloni, in attesa della morte, però vivono, soffrono e amano. Kathy e Tommy sono convinti che il loro amore potrà salvarli, elevandoli al rango di essere umani agli occhi di chi li ha creati per un fine specifico. Ma scoprono che neppure la capacità di provare amore è sufficiente per essere considerati uomini.

Ne Il gigante sepolto, singoli individui e interi popoli in guerra fanno i conti con i ricordi e la loro rimozione, la necessità di affrontare la memoria delle cose perdute. Ma non è neppure la nostalgia a caratterizzarci come esseri umani, “abbiamo perso la memoria, – dice Ishiguro – la pioggia è finita, ma l’acqua continua a bagnarci un poco”, come quella residua che stilla dai rami degli alberi, quando la tempesta è ormai terminata da un pezzo. Fino a giungere ad affrontare, in Klara e il sole, l’ultimo dei baluardi dell’unicità umana: l’anima o il daimon, il “cuore poetico”, l’afflato che fa di noi qualcosa di irripetibile e inafferrabile.

All’interrogativo del Padre, Klara risponde a questo modo: “Questo cuore di cui parla, – dissi. – Potrebbe senz’altro essere la parte di Josie più difficile da imparare. Potrebbe essere come una casa a tante stanze. Eppure, un AA devoto, se ha il tempo che ci vuole, potrebbe attraversare ciascuna di quelle stanze studiandole a fondo una per una, fino a farle diventare casa sua.”

Il Padre fa un ultimo tentativo: “– Ma supponiamo che poi tu entri in una di queste stanze, – disse, – e scopra che ne contiene un’altra. E che dentro quella ce n’è un’altra ancora. Stanze su stanze, una dentro l’altra. Non credi che potrebbe essere così, cercare di conoscere il cuore di Josie? Per quanto tu possa vagabondare per quelle stanze, non ce ne sarebbero sempre altre nelle quali non saresti ancora entrata?”

Kazuo Ishiguro da sempre scrive, a quel suo modo universale, dell’uomo di fronte ai grandi cambiamenti della storia, della tecnica e della scienza.

Dall’ingegneria genetica all’intelligenza artificiale, riconosce che sono ora queste evoluzioni, peraltro ineludibili e necessarie, a porre gli esseri umani di fronte ai nuovi abissi e agli interrogativi metafisici ed esistenziali sulla natura dell’anima umana e su cosa significhi: “Davanti a cloni o a robot ci viene spontaneo chiederci cosa sia quel qualcosa di inafferrabile a qualsiasi tipo di indagine strumentale, e se questo qualcosa sia nell’ordine del senso, e se questo ci renda unici, diversi da tutti gli altri e dunque irriproducibili. Come sarebbero eventualmente destinate a cambiare le nostre relazioni con gli altri nel momento in cui si scoprisse che siamo replicabili? Se non c’è nulla in noi a renderci speciali che senso avrebbe amare un determinato individuo invece di un altro?”

Klara non nega la complessità del cuore umano e la difficoltà dell’impresa di riprodurlo, ma è un’intelligenza artificiale, impara dal passato, diventa complessa tanto più complesso è l’oggetto della sua osservazione e del suo calcolo.

È un’impresa difficile, dunque, ma non impossibile perché, afferma in conclusione, “deve esserci una fine a quanto occorre imparare.” La motivazione con la quale è stato conferito il Nobel a Ishiguro recitava: “perché, nei suoi romanzi di grande forza emotiva, ha svelato l’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo.”

Klara, pur essendo una macchina, nel corso della sua esistenza apprende l’amore grazie all’osservazione e all’imitazione degli esseri umani. Kathy e Tommy, creati strumentalmente, condensano in pochi attimi il senso della vita umana: “Abbracciati senza dire una parola, mentre il vento non smetteva di soffiarci contro, e sembrava strapparci i vestiti di dosso; per un istante fu come se ci tenessimo stretti l’uno all’altra, perché quello era l’unico modo per non essere spazzati via nella notte.”

E dunque se anche l’unicità dell’uomo è un’illusione e, come l’amore, la nostalgia e tutto il resto, non è naturale, innata, metafisica, inesplicabile ma è invece qualcosa che l’uomo ha costruito da sé e per se stesso, per i suoi simili, allora occorre tutto l’impegno nostro, e di nessun altro, per dare ad essa senso, elevarla e preservarla.


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