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Jack Kerouac

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Tutti i giovani sono disperati e a crederli felici sono solo gli adulti che li vedono attraverso le lenti della propria mancanza, rileggendo la propria vita alla luce del rimpianto. Tutti i giovani sono disperati soprattutto perché non possono spiegarlo a nessuno né chiedere aiuto. Nessuno potrebbe comunque capirli perché il mondo nasce con ognuno di loro e non assomiglia a nient’altro. Chi cerca di rendergliene ragione, pure in buona fede, mente, e i giovani odiano la menzogna.

Comunemente si crede che i giovani non comprendano la vita adulta semplicemente perché non ne hanno esperienza. Vorrei, dal basso della mia giovinezza, sfatare questo mito. I giovani conoscono bene la vita adulta, da molto presto, con una lucidità nuda che farebbe sudare freddo gli adulti. Ed è proprio perché portatori ancora consapevoli di questa lucida visione che i giovani sono tutti, profondamente, infelici, presi in quella loro oscillazione tra una pungente pienezza dei sensi e la voragine terrificante della mancanza di senso, che ancora non nascondono ai propri occhi.

“La terra è essenzialmente una tomba”, scrive Jack Kerouac “E io morirò, e voi morirete e tutti moriremo”. Sono passati cent’anni dalla nascita di Kerouac e poco meno dalla sua giovinezza, che a ventinove anni produsse Sulla strada, un libro che è stato detto un capolavoro e poi manifesto di molte cose, della Beat generation, ad esempio, del rifiuto delle convenzioni della società, della critica al materialismo, al militarismo, ma che essenzialmente non vuole essere manifesto di niente. Ed è questa la ragione della sua ininterrotta vitalità letteraria, tra i giovani di molte generazioni.

Si dice che i giovani siano in cerca di una guida e gli adulti, spesso, con sforzi ammirevoli, ricacciando i loro propri dubbi, paure, infelicità, si immolano nel tentativo di una spiegazione, di offrire loro una direzione. I giovani sono molto confusi, è la verità, ed è proprio la contemplazione del vuoto di senso che gli si dispiega in quella ancora lunga carrellata di minuti ore anni davanti, che li confonde. Ma non è di qualcuno che gli indichi la direzione che hanno bisogno, bensì, di qualcuno che smetta di fingere, e sia onesto con loro. “A me piacciono troppe cose – scrive Kerouac – e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. […] Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione.”

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati», dice Neal Cassady a Kerouac in uno dei dialoghi più famosi, «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare». Si è parlato dell’irrequietezza della gioventù, della sua necessità di muoversi, di spostarsi, di partire. Dando per scontato che fosse giusto così, senza chiedersi perché. I giovani lo sanno il perché: che non sta tanto nel desiderio di andare, quanto in quello di tornare. L’intero Sulla strada è un libro di ritorni e pochi se ne sono accorti. L’imperativo è, certo, non fermarsi perché fermarsi vorrebbe dire restare. E se si resta in un posto non si può mai fare ritorno. Questo ogni giovane lo sa bene e chi più si spinge lontano, spesso, è quello che più disperatamente vuole tornare indietro.

I giovani, nel loro isolamento dal mondo dell’infanzia e da quello adulto, non sono soli: hanno i giovani con loro. E si ritrovano insieme nottate intere a parlare o a non parlare, a sfogare vitalità o a soffocare l’incombenza del vuoto con il vuoto dei sensi, ancora troppo acuti, mentre la felicità pian piano si identifica con l’assenza della sofferenza.

“Adesso considera un po’ questi qua davanti. – dice Neal a Kerouac – Hanno preoccupazioni, contano i chilometri, pensano a dove devono dormire stanotte, quanti soldi per la benzina, il tempo, come ci arriveranno… e in tutti i casi ci arriveranno lo stesso, capisci. Però hanno bisogno di preoccuparsi e d’ingannare il tempo con necessità fasulle o d’altro genere, le loro anime puramente ansiose e piagnucolose non saranno in pace finché non riusciranno ad agganciarsi a qualche preoccupazione affermata e provata e una volta che l’avranno trovata assumeranno un’espressione facciale che le si adatti e l’accompagni, il che, come vedi, è solo infelicità, e per tutto il tempo questa aleggia intorno a loro ed essi lo sanno e anche questo li preoccupa senza fine.”

Fin dall’inizio Neal è per Kerouac l’Alternativa che stava cercando, l’idea che si possa fare diversamente questa faccenda della vita adulta, del cresci, lavora, preoccupati, assumiti la responsabilità di altre esistenze, crescile, mentigli, falle sopravvivere, lavora, preoccupati, muori. Neal tiene stretta la lucidità della sua visione, non la lascia, è un pan, un satiro, un demone, un vagabondo. Un uomo vivo che accetta di bruciare. Uno di quei pazzi che tanto ama Kerouac incontrare sulla sua strada, frequentare, comprendere, Ginsberg, Burroughs, Corso e altri ancora, “perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»” Neal è il re dei pazzi, ne è il polo estremo, e quando alla fine esplode è la luce più alta e più azzurra di tutte. Morirà, ancora giovane, assiderato sui binari di un treno, in overdose da barbiturici, mentre solo un anno dopo Kerouac completerà il suo lento suicidio alcolico, sputando un fiotto di sangue da cirrosi epatica. Forse chi di loro sopravvivrà alla giovinezza farà dei figli e farà in modo che i figli crederanno che avevano avuto una vita tranquilla, ordinata, una giovinezza felice, “senza nemmeno immaginare l’aspra follia e ribellione della nostra esistenza reale, della nostra notte, l’inferno, l’insensata strada d’incubo. E tutto dentro un vuoto senza principio e senza fine. Pietose forme d’ignoranza.” Forse alla fine avrà dimenticato e ci crederà lui stesso.

I giovani sono tutti disperati, è vero, ma non lo sono sempre. A volte sono incredibilmente, dolorosamente felici. Ed è in quei momenti che, con la stessa bruciante intensità, colgono appieno la bellezza di questa vita “sradicata” ma “piena di grazia”, “compassione”, “pietà”, “tenerezza”, in una parola beatitudine, e ne hanno già nostalgia.



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