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Haruki Murakami

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È il 1978, a Tokyo si disputa una partita di Baseball, Yakult Swallows contro Hiroshima Carp. Haruki Murakami ha 29 anni, possiede un jazz cafè che gestisce con la moglie, conosciuta quando frequentava, senza grande convinzione, l’università. Era stato ammesso al corso di drammaturgia nel 1968, quando in città infuriavano le proteste giovanili, venute dall’America insieme alla musica, ai film e ai jeans.

A Murakami piaceva camminare e piaceva il jazz. Alle proteste non era particolarmente interessato, come verso tutto ciò che pretendeva dall’individuo un’adesione a un pensiero collettivo. Gli piaceva invece passare le serate nel suo bar a sentire parlare la gente, quando gli riuscì il sogno azzardato di aprirlo. Era lì che andava nutrendo quella sua peculiare capacità di scrittore di entrare negli animi altrui e scandagliarne i desideri riposti uno a uno. Ma prima di quella partita di baseball e dei suoi ventinove anni, Murakami non aveva scritto ancora nulla. Leggeva moltissimo però, soprattutto letteratura europea e americana: Dostoevskij, Tolstoj, Kafka e poi, quando sarà anche loro traduttore, Carver, Fitzgerald, Capote, Chandler.

Murakami tifa per gli Yakult Swallows, a un certo punto il battitore della sua squadra colpisce una palla doppia. Murakami la guarda vorticare in aria, “Mi sembrò che qualcosa arrivasse svolazzando giù dal cielo e io l’accogliessi delicatamente tra le mani. In quel momento, non so perché, pensai: credo che potrei scrivere un romanzo”. È allora che, tornato a casa, inizia a scrivere e scrive, ogni sera al tavolo della cucina, quello che diventerà Ascolta la voce del vento, il suo primo romanzo, vincitore del premio Gunzo per scrittori emergenti.

Murakami è oggi uno degli scrittori i cui libri sono letti di più al mondo. È tradotto in più di cinquanta lingue, vende milioni di copie. È stato candidato al Nobel molte volte, ha vinto numerosi altri premi. Eppure è, pubblicamente, pressocchè invisibile. È un uomo schivo, non ama parlare in pubblico né gli incontri affollati. Trova logorante che le persone, una volta famose, ricevano cattiverie e gentilezze incomprensibili da un mondo altrettanto incomprensibile. Anche la sua ricerca stilistica è stata un faticoso processo di sottrazione. In quel suo primo libro, per riuscire a trovare la propria lingua levigata,

Murakami racconta di aver riscritto l’incipit in inglese, un inglese che era allora molto elementare, e poi aver tradotto quell’incipit scarno di nuovo in giapponese: “Ripensando alla mia esperienza personale, per trovare un mio stile e un mio modo originale di raccontare, prima di tutto ho dovuto sottrarre qualcosa a me stesso, più che aggiungerlo; è stato il mio punto di partenza. […] nel nostro percorso di vita inglobiamo troppe cose. Le informazioni sono in numero esagerato, il carico eccessivo, troppe le azioni su ogni dettaglio, e quando si prova ad esprimersi spontaneamente, la sovrabbondanza di contenuti finisce col provocare un ingorgo… E non si riesce più a ripartire”.

Quello che Murakami ama fare è scrivere storie diventando trasparente: «più scrivo, più leggo e rileggo, più provo la strana sensazione di diventare trasparente. Se alzo una mano verso il cielo, a volte, ho l’impressione di poterci vedere attraverso». Tutta la sua scrittura è un tendere oltre, tutti i suoi personaggi si interrogano sull’insensatezza della vita, sulla sua fugacità, sull’incomprensibilità di se stessi, sulla necessità di imparare a vivere nell’involucro del proprio corpo.

Il corpo è per Murakami il tramite per una realtà ulteriore e parallela, che esiste con l’esistente, pure se non vista o se conosciuta solo a tratti, per intuizioni ed epifanie: “Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore. E in molti casi è un’esperienza pericolosa.”

Anche l’arte della corsa, che coltiva fin da giovane, correndo diverse maratone l’anno, è un mezzo per far diventare il corpo talmente duro e autosufficiente da poterlo dimenticare: “Non sono una persona con un grande senso fisico. E non faccio sport perché sia salutare. È piuttosto un meccanismo metafisico. Voglio potermi distaccare dal corpo. Voglio che il mio spirito possa sfuggire al corpo quando mi concentro. Questo è possibile soltanto se lo mantengo forte. Il corpo deve essere un tempio. Una struttura stabile dalla quale io mi possa liberare. Quando scrivo, a volte ho la sensazione di essere circondato da muri di pietra. Sfondarli richiede una forza enorme. Ma solo così posso passare dall’altra parte.”

L’altra parte non è mai qualcosa di distinto da se stessi, ma una continuazione, una propaggine inesplorata, dove risiede il proprio io misconosciuto, ma anche l’arte e il grumo oscuro della scrittura.

I protagonisti di Murakami sono quasi sempre giovani, quasi sempre infelici. Sono scossi da grandi desideri o prostrati e vinti dalla loro impossibilità. Tutti i suoi uomini e le sue donne sono chiusi in una gabbia, tappezzata di un sé che non riescono a conoscere o non vogliono riconoscere, fino a che soccombono oppure qualcuno o qualcosa li libera o si liberano essi stessi, a un certo punto, da soli.

Le storie di Murakami sono una corsa difficile verso la costruzione faticosa della propria soggettività, la scissione dolorosa della propria diversità dal tutto. Sono anche, quasi sempre, storie d’amore, non importa se tragico, “Il sesso è la via maestra per passare dall’altra parte. Il rapporto sessuale ha qualcosa di spirituale. Apre una porta simbolica. L’amore però è molto più bello del sesso. Io scrivo favole per adulti. Tutti vogliamo credere nella forza dell’amore. E a quella del dolore. Nella realtà non si prova l’uno senza l’altro. Ma quando leggi un libro improvvisamente pensi che quello che stai leggendo può succedere davvero. E proprio a te.” Sono molto spesso storie “strane, bizzarre”, dove il paranormale, l’assurdo o il metafisico fanno incursioni velate o meno nella storia, senza che il suo racconto di ciò che è reale dentro e fuori di noi perda alcuna credibilità: “[…] credo nella forza dell’immaginazione. E che non c’è solo una realtà. Il mondo vero e un altro mondo irreale esistono entrambi, e sono strettamente collegati. Talvolta, si mischiano. E quando voglio, quando mi concentro con molta forza, posso passare all’altro. Posso anche andare e venire. Questo è ciò che accade nella mia narrativa. Le mie storie si svolgono qualche volta da una parte, qualche volta dall’altra. Ormai non sento la differenza.” Diventare trasparenti significa vedere molto altro.


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