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Gaia Girace e Margherita Mazzucco protagoniste di L’Amica Geniale – Storia del nuovo cognome

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C’era un periodo della mia vita in cui mi sentivo come alla deriva nella mia esistenza e pure dentro me stessa. Mi affacciavo dentro di me, con timore, e sentivo solo buio, quel buio pesante, spaventoso e infinito che ha il mare di notte, una massa densa, palpabile, che avverti in maniera quasi atavica ma che non puoi vedere, non puoi distinguere dal cielo e dalla notte. In quel periodo mi sentivo vuota e lo dissi a una persona a me vicina, le dissi che mi sembrava di non esistere affatto, di essere un contenitore di qualcosa che era andato altrove, che avevo perso un giorno, chissà quando, e mai più ritrovato. Questa persona non contestò il fatto che fossi vuota, mi disse solo: “prova a non pensare al vuoto in termini di mancanza.” Mi arrovellai moltissimo su quella frase, cercando di darle un significato che trovasse riscontro dentro di me, dentro quel deserto di me che ero io in quel momento. Non lo trovai. La misi da parte, come un compito difficile che si rimanda. Continuai a esistere con i miei alti e bassi, i pieni e i vuoti, fino a che non mi capitò di leggere L’amica geniale di Elena Ferrante, o la tetralogia come viene detto il libro in quattro volumi, e lì dentro, in maniera inaspettata, trovai quel significato che andavo cercando da mesi invano e che avevo ormai accantonato.

La storia dell’Amica geniale è un racconto universalmente noto, dato il successo mondiale dell’opera e della sua autrice. Il libro narra la storia di due amiche, Elena e Lila, nate a Napoli in un rione popolare, prima bambine, poi adolescenti e donne, nell’arco di molti decenni della storia italiana, dal dopoguerra fino ai nostri giorni. Lo fa a partire dal momento in cui Elena è anziana e apprende la notizia della sparizione volontaria di Lila, del fatto che è riuscita a scomparire senza lasciare alcuna traccia. Elena ragazza riesce a emanciparsi, studia, vive nel mondo, Lila invece è costretta a restare e radica le sue sorti in quelle del rione che del mondo esterno diventa una scuoiata rappresentanza. Elena e Lila dipendono, costantemente e negli anni, l’una dall’altra, non solo, come dice Elena Ferrante, “nel senso di aiutarsi, ma anche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimento e intelligenza, levarsi reciprocamente energia.” Fin dal loro primo incontro, le personalità e le aspirazioni di Elena e Lila si intrecciano in una misura così stretta da diventare difficilmente distinguibili, da essere come un unico individuo eternamente condannato a vivere scisso e in conflitto, ma che da questo sdoppiamento trae anche la sua forza.

Intorno a Elena e Lila vive e agisce, potentissimo, il rione che si dirama in molteplici facce, desideri e destini. Il rione, personificato in donne e uomini prevaricati e prevaricatori, obbedienti o feroci, calcolatori o vinti, incide sull’esistenza delle due protagoniste, e su tutte le altre, come una divinità terrena che brulica di mille corpi contingenti e agenti, ma ha una volontà collettiva superiore e autonoma, che viene da migliaia di altre esistenze, molti decenni e molto passato.

È stato scritto, in tanti e differenti modi, che caratteristica di Napoli è quella di contaminare profondamente le esistenze umane che ospita. È una città di foresta vergine, direbbe La Capria, in cui a ogni passo che muovi ti impantani sempre di più, una città che ti addormenta, ti uccide oppure ti ferisce a morte. Pare un’anomalia, quella di Napoli, un destino della città che è quello di nascere destini già compiuti, in cui in ogni individuo si legge, più chiara che in tutto il resto del mondo, l’ineluttabilità del condividere l’esistenza della città, di tutti e di ognuno, del ripeterne all’infinito le sorti. Io credo che Napoli sia eccezionale, per le sue caratteristiche storiche e geografiche, ma non perché abbia un destino diverso dalle altre città abitate dagli uomini, piuttosto perché lo mostra, in bella vista come una macchia sul bavero della giacca, osceno come il culo sporgente del babbuino. “Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”, scriveva Malaparte ne La pelle. Mentre Elena pensa: “Me l’ero battuta infatti. Ma solo per scoprire, nei decenni a venire, che mi ero sbagliata, che si trattava di una catena di anelli sempre più grandi: il rione rimandava alla città, la città all’Italia, l’Italia all’Europa, l’Europa a tutto il pianeta. E oggi la vedo così: non è il rione a essere malato, non è Napoli, è il globo terrestre, è l’universo, o gli universi. E l’abilità consiste nel nascondere e nascondersi lo stato vero delle cose.”

Ma cos’è che Napoli mostra in quella sua maniera estrema, seduttiva e impudica, mentre altrove appare sepolto o sfumato? Questo: che nessuna esistenza è individuale; che, da prima ancora di venire al mondo, l’individuo ha già lacci, legami, connessioni, pretese, aspettative, modi d’essere, pastoie, finali: “essere vivi significava urtare di continuo contro l’esistenza altrui ed esserne urtati – scrive Ferrante – con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi, quindi di nuovo bonari.” “Noi siamo la ressa degli altri”, dice in un’altra riflessione, “L’intero nostro corpo, volente o nolente, realizza una folgorante resurrezione dei morti proprio mentre avanziamo verso la nostra stessa morte” e ancora “il singolo, tutto sommato, è solo un campo di battaglia, nel suo corpo si affrontano ferocemente privilegi e svantaggi.”

Mentre leggevo le vicende di Elena e Lila, scritte con la scrittura dura, controllata e potente di Ferrante, fatta di “nitidezza dei fatti e bassa reattività emotiva alternate a una sorta di tempesta del sangue, di scrittura convulsa”, compresi che non raccontava tanto la storia di due esistenze distinte, quanto quella della costruzione dell’identità dell’individuo e delle forze collettive che ne partecipano, forze che iniziano prima ancora che la coscienza nasca e si formi e che la determinano poi per tutta la vita. Sono forze storiche, forze sociali, geografiche, familiari, intellettive, sentimentali. Sono tutto ciò che fa piena una persona e un’esistenza umane. Più che del fato o di un dio, la forza cieca di cui veramente è in balia l’individuo è quella inconsapevole e potente di tutti gli altri esseri umani insieme che vivono e hanno vissuto intorno, accanto e prima di lui. E allora l’unica possibile vera radicale affermazione dell’individualità rimane quella di sparire. La sola scelta che si sottrae alla determinazione di tutte le altre è quella dell’assenza. L’assenza – è il fulcro di quanto scrive Ferrante, della stessa rappresentazione di sé come autrice – è la più forte manifestazione individuale della propria soggettività. “Prova a non pensare al vuoto in termini di mancanza”, avevo colto finalmente il senso di quella frase che mi era sempre sfuggita, e mi riportava alla sensazione di pienezza oscura, familiare e ignota, che provavo quando avvertivo l’esistenza del mare intorno a me, senza poterlo vedere.



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