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Ernest Hemingway

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Quando Hemingway morì per la seconda volta lesse i suoi necrologi provenienti da varie parti del mondo. Era un personaggio controverso, da alcuni decisamente avversato, molti non erano stati teneri con lui. Nell’incidente aereo in Africa, dove morì e poi resuscitò agli occhi del mondo, ebbe le ossa del bacino e le costole frantumate, reni e fegato maciullati, molti organi interni compromessi. Era il secondo incontro che aveva con la morte e quella volta seppe che aveva perduto e che gli era rimasto solo il tempo per rimettere a posto le sue cose prima di andarsene, sette anni più tardi.

La prima volta che aveva incontrato l’Eterna puta, come la chiamava, era molto giovane e come tutti non aveva ancora compreso granché di “tutta la faccenda del vivere”. Come il protagonista del suo romanzo di esordio, The sun also rises, Jake Barnes, ogni suo scritto fino ad allora pronunciava queste parole: “A me non importava di sapere cosa fosse tutta la faccenda. M’importava di sapere come vivere, nella faccenda. Forse però se scoprivate come viverci potevate anche capire cosa l’intera faccenda fosse”. E così ogni sua azione, giacché ciò che imponeva a sé stesso l’ Hemingway uomo, era la medesima cosa che imponeva al sé scrittore: l’estrema coerenza, che si può chiamare anche autenticità, se lo si vuole. E di estrema coerenza è morto, nel suo terzo e ultimo incontro, il 2 luglio di sessant’anni fa.

Ma quella prima volta che per poco era morto, nel 1918 a Fossalta, quando era stato investito dalle schegge di un mortaio austriaco Minenwerfer e aveva sentito “l’anima o qualcosa uscire dal corpo come si toglie un fazzoletto di seta di tasca tirandolo per un angolo. Svolazzò in giro e poi ritornò indietro e rientrò e non ero più morto”, Hemingway aveva compreso qualcosa che un ventenne forse non avrebbe dovuto conoscere.

C’è un racconto di Hemingway che io preferisco più di ogni altro, è breve e vi accade poco o nulla di rilevante, come nei suoi migliori. S’intitola Un posto pulito, illuminato bene. Due camerieri di un caffè guardano il loro ultimo cliente, un vecchio di più di ottant’anni, che è lì da solo a bere, dopo le due di notte, e impedisce loro di chiudere. Il più giovane dei due è nervoso, vorrebbe cacciarlo, tornare a casa da sua moglie. L’altro cameriere invece no. Vuole tenere ancora aperto per il vecchio. Hanno questo dialogo: “«Io sono di quelli ai quali piace stare al caffè fino a tardi» disse il cameriere più vecchio. «Con tutti quelli che non vogliono andare a letto. Con tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte.» «Io voglio andare a casa e a letto.» «Siamo due razze diverse» disse il cameriere più vecchio. […] «Non è solo questione di giovinezza e di fiducia, anche se sono bellissime cose. Ogni notte io sono restio a chiudere perché ci può essere qualcuno che ha bisogno del caffè.» «Hombre, ci sono delle bodegas aperte tutta la notte.» «Non capisci. Questo è un caffè piacevole, pulito. È illuminato bene. La luce è molto buona e, adesso, ci sono anche le ombre delle foglie.»”

Penso che sia forse questo che ha compreso il giovane Hemingway la prima volta che è morto: che siamo tutti insieme in questo luogo oscuro che è la vita umana, che accanto a chi ha “fiducia” e un posto caldo dentro o fuori di sé, c’è chi dalla nascita si sente solo, “disperatamente solo, solo da perdere la testa”, e profondamente sente la solitudine altrui. Hemingway forse ha compreso in quel momento di essere insieme il vecchio e il secondo cameriere, e sceglie che questo sarà il suo ruolo, per tutti gli uomini uguali al vecchio che nella sua futura esistenza riuscirà a toccare: dare loro un posto dove stare, tenere accesa una “luce per la notte.”

Hemingway ha combattuto molte guerre, non solo quelle propriamente dette. Ha affrontato pericoli mortali e animali, uomini che non sopportava e che non lo sopportavano, ipocrisie, retoriche e preconcetti. Ha compiuto atti sbagliati o retti, pietosi o violenti. Ha avvertito più di molti altri il carico di solitudine e di amore che a tutti mette indosso la vita umana. E poi ha scritto. E per tutta la sua esistenza di scrittore si è dannato per riuscire ad arrivare a riprodurre nella scrittura il guizzo vitale, ambiguo e sporco dell’esistenza. È riuscito infine a creare qualcosa, attraverso l’invenzione, “che non è una rappresentazione ma una cosa completamente nuova, più vera di qualunque cosa vera e viva; e la si può creare viva, e se la si crea abbastanza bene le si dà l’immortalità. Per questo si scrive e per nessun’altra ragione che si sappia.”

A un certo punto dell’esistenza, ha compreso che era una battaglia perduta in partenza ma ha deciso comunque di affrontarla nel modo più intenso e leale possibile: “con tanta più lealtà quanto maggiore è la sua certezza di perdere, seguendo le leggi di un codice sportivo o cavalleresco dove quello che conta non è la vittoria ma l’eleganza del gioco” (Fernanda Pivano).

La penultima volta che è morto, dopo il volo precipitato in Africa, tornato in Italia, tenne lontano i fotografi e i giornalisti, “non è leale sorprendere un uomo sconfitto” disse a Pivano che era andata a trovarlo. A lei, che era preoccupata di cosa potesse pensare di quei necrologi, dei coccodrilli e degli avvoltoi che in questa diversa veste aveva dovuto affrontare, disse solo “Non ti preoccupare, figlia. Il mio cuore è netto e pulito e tutti lo sanno… Non lottare mai con la gente chickenshit, le vendette arrivano troppo in fretta, sicché non si deve lottare. Lascia che cadano del loro stesso peso.”

L’ultima volta che Fernanda Pivano lo vide, prima del 2 luglio 1961, era in piedi nella luce sul molo, appena sceso dal Pilar, le venne incontro e l’abbracciò stretta, come faceva lui, aveva già fatto quell’ultimo patto con la morte: “In quel momento vidi le sue braccia stringere e rassicurare come me tutti i suoi personaggi solitari e carichi d’amore alla deriva lungo le vie del disastro, senza sapere (ma abbastanza saggi da non chiedersi) i perché e i percome; e vidi tutti i suoi personaggi consolati e sicuri sotto la sua protezione e la sua inesauribile umanità; sotto la sua comprensione infallibile di tutto ciò che è vero, al di là dei falsi idoli e dei simboli dai piedi di argilla, al di là della coltre soffocante dei rapporti cosiddetti sociali, al di là della barriera di silenzio che ci impedisce di comunicare.”



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