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L'attivista irlandese Richard Martin, dipinto mentre porta un asino in tribunale durante un processo per maltrattamento

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IL MONDO animale è stato considerato, per diverso tempo, come  una metafora della natura umana. Talvolta gli animali sono stati resi protagonisti di opere letterarie, romanzi e racconti in cui divenivano  l’incarnazione archetipica  dei  vizi  dell’uomo, altre volte, invece, sono stati sinonimo delle sue  virtù. Basti pensare a Dante che, nella sua Divina Commedia, si serviva delle figure animali per simboleggiare alcuni archetipi umani in maniera allegorica, così come Leonardo Da Vinci che usava gli animali per descrivere vizi e virtù umane, la temperanza, la costanza, l’umiltà, la superbia, la falsità. E, volendo andare ancora più indietro, ci sono le  Favole di Esopo  che raccontano la natura umana attraverso gli animali che, attraverso le loro abitudini bestiali, si comportano talvolta come gli uomini e ne rappresentano alcuni degli aspetti salienti.

Non manca poi anche una parte della letteratura dedicata alla vita e alla  dignità animale, considerata come un mondo a sé, con le sue leggi e il suo fascino, spesso di difficile comprensione per noi. Eppure, se si indaga più a fondo si scopre che spesso gli animali hanno aiutato l’uomo a crescere, lo hanno ispirato, e perfino indirizzato nelle scoperte. 

Queste ragioni hanno, in particolare, accompagnato la posizione di Piergiorgio Odifreddi sulla valutazione del mondo animale nel suo ultimo lavoro Sorella scimmia, Fratello verme (Ed. Rizzoli, foto a destra). Ciò che colpisce, e maggiormente convince, nel leggere le pagine di questa opera è la capacità dell’autore di costruire un vero e proprio palinsesto, dove fili differenti, ma solo in apparenza, si mostrano organicamente intrecciati, tenendo insieme il rigore concettuale dell’interrogazione filosofica e sociologica con la feconda disciplina del sapere scientifico. Procedendo nell’unico modo in cui un campo labirintico nella forma, e complesso nella sostanza, può essere visitato, Odifreddi non dispiega orizzontalmente il suo sguardo, pretendendo di misurare l’estensione illimitata di saperi sigillati nella loro pretesa autosufficienza disciplinare. Ma avanza, demolendo confini, attraversando frontiere, corrodendo certezze apodittiche e revocando in questione ciò che il dominio incontrastato delle logiche di mercato ha cristallizzato nella fissità di preconcetti logori e inservibili.

Il tema centrale su cui Odifreddi ci invita a riflettere è che, nonostante l’indiscussa autorità del pensiero occidentale giudaico-cristiano fondato sulla superiorità dell’uomo sugli altri esseri viventi, noi siamo debitori agli animali di infinite e fondamentali conoscenze: dalle rane che insegnarono a Galvani che il sistema nervoso funziona a impulsi elettrici, alle mucche che servirono a Edward Jenner per l’audace sperimentazione dei vaccini che si chiamano così perché una vacca infetta dal vaiolo fu l’oggetto dei suoi studi, passando per i moscerini di Morgan, indispensabili per gli studi sull’ereditarietà, fino ai ragni il cui filo resistentissimo, secondo il chimico-scrittore Primo Levi, si solidifica secondo un processo più efficace di quelli messi a punto dall’uomo, ovverosia per trazione.  Non a caso, negli ultimi, anni, ricercatori di tutte le parti del mondo lavorano e continuano a lavorare con i cacciatori, perché gli animali si ammalano di malattie simili a quelle che contagiano l’uomo. Del resto, oggi, quasi tutta la ricerca biomedica sul cervello è condotta su modelli animali. E la scelta di un modello non dipende da quanto quell’animale sia prossimo alla nostra specie, bensì dal tipo di problema che si vuole studiare.

Indicazioni non dissimili si rinvengono anche nei recenti studi sul Covid. Un modo per scoprire e capire il coronavirus e la sua diffusione è stato proprio quello di studiarlo sugli animali per vedere quanto e come si ammalavano e se riuscivano a diffondere la malattia. Acuta, suggestiva e segnata da inattese connessioni tra diverse tematiche, l’analisi di Odifreddi si concentra su aspetti che si prestano ad una fruizione meditata e approfondita. L’ambizione esplicitamente dichiarata è quella di inoltrarsi nella scoperta dell’interiorità del fenomeno umano che, oltre all’uomo, ha avuto come protagonisti gli animali, compresi quelli metaforici come la farfalla di Lorenz, quella che, per intenderci, sbatte le ali in Brasile e scatena un tornado in Florida.

D’altronde, lo stesso Darwin indagando le emozioni degli animali nel saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” affermava che ammettere che un elefante o un capodoglio o uno scimpanzé provino emozioni non significa che compongano la sera poemi o scrivano saggi sul senso della vita o compiano scoperte scientifiche, e d’altra parte non tutti gli esseri umani lo fanno, ma riconoscere un’attitudine che li accomunano a noi in quanto mammiferi, esseri viventi dotati di circuiti cerebrali e ormoni simili. Da qui il passo successivo, quello di decostruire una convinzione umana molto radicata, ovverosia quello di essere soggetti unici e superiori agli altri. In questo senso, ancora una volta è Darwin a venirci in aiuto affermando nell’opera “L’origine delle specie” che non esiste alcuna posizione speciale per gli esseri umani, e come il progresso scientifico mostri la grande complessità degli altri animali, sia in termini di adattamenti fisici che comportamentali.  Tramonta così una convinzione scientifica tanto antica quanto erronea, ovverosia la singolarità dell’uomo nei confronti del resto del creato, collocato in una posizione privilegiata, e al suo posto prende corpo un credo, una convinzione che trae origine anche dalla maturata consapevolezza che anche gli animali hanno gli stessi nostri diritti. Così, assodato che il vivente, e non solo l’uomo, risulta posizionato al centro dell’attenzione, siamo, dunque, di fronte a un approccio che apre ad una preziosa occasione di dialogo, mettendo in contatto l’antropocentrismo con chi professa che il dualismo umano-non umano debba dare luogo a una simbiosi nella quale imperi il solidarismo fra umanità e natura.

Un pensiero che è ragionevole ritenere rinvenga la propria ratio anche nel superamento della prospettiva fondata sulla netta separazione del sapere umanistico da quello di impianto scientifico che, come è noto aveva alla base una certa impostazione cartesiana di  fondo e, soprattutto, la perdita della feconda dottrina aristotelica che predicava l’esistenza dell’anima vegetale e sensibile. Al riguardo, un contribuito prezioso a questo discorso l’ha dato anche Italo Calvino. Nell’opera Lezioni Americane, Calvino, discutendo del destino della letteratura nella società contemporanea e della sua funzione in un mondo sempre più dominato dalla verità della scienza e della tecnologia, riconosce che la cultura umanistica ha l’obbligo di mettersi in dialogo con gli altri saperi per non isolarsi, ma senza mai snaturare la propria vocazione a rappresentare la realtà cogliendone il senso generale. Del resto, l’instaurazione di legami tra ambiti apparentemente lontani, come le ricerche scientifico-matematiche e lo studio dell’uomo, è riconoscibile solo da chi non si è confinato in uno solo dei tanti compartimenti in cui oggi la cultura appare suddivisa. Una convinzione che, senz’altro, trova piena corrispondenza nell’opera di Odifreddi.


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