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La neve fuori ad imbiancare i giorni delle feste e il fuoco dentro, nella casa di mia nonna. Sempre acceso, anche d’estate.

La grande fornace rivestita di piccole piastrelle bianche e lucenti a casa di mia nonna serviva a scaldarsi ma anche a cucinare lentamente pietanze antiche ; serviva ad accompagnare le ore pigre delle letture e dei giochi ma anche ad accogliere chi arrivava e far ritrovare chi ci abitava.

Scaldarsi, cucinare e raccontare. Era quello il cuore della casa di mia nonna; quello il luogo in cui lei incantava me e le mie sorelle – e poi via via i fratelli e i cugini che arrivarono negli anni – con le sue storie fantastiche ma anche con la magia dell’uovo cotto sotto la cenere mentre in una sorta di “soffitta-piccionaia” i colombi volavano liberamente e capitava che te li ritrovassi zompettare anche in cucina. Colombi ma anche conigli.

Mia nonna era una incantatrice: anche della grande fatica in campagna condivisa con mio nonno, lei sapeva fare un dono trasformandola in racconti mirabili che seguivano il mutare delle stagioni. L’incantesimo di un dono fatto di parole, di quelli che poi – negli anni a venire – torna puntualmente a manifestarsi in certi momenti della vita. Sapeva fare tutto, ma dico proprio tutto mia nonna: persino i cestini intrecciati, i mestoli di legno intagliato, ogni tipo di provvista comprese le amarene sotto spirito che io ci andavo matta. Sapeva riparare le scarpe rotte, lavorare a maglia, cucinare sapientemente, fare il vino e l’olio, tessere al telaio che era una meraviglia o farci monili con qualunque cosa le capitasse tra le mani.

Bella – così io la ricordo – con gli occhi di un grigio azzurro sempre acceso e di una rigidità tale che guai a dirle che il pane del giorno prima era troppo duro o che ti eri attardata a giocare o a passeggiare ed eri arrivata col fiatone corto a tavola apparecchiata: semplicemente saltavi il pranzo e mangiavi il pane tutto, anche quello del giorno prima e del giorno prima ancora…

«Il pane non si butta», diceva mentre affondava nel latte quello più duro trasformandolo in una zuppa da mangiare a colazione.

Una combattente che ti pigliava il cuore anche con certi scherzi architettati ad arte. Come quando mi faceva credere che il rumore degli zoccoli dei muli che stavano nelle stalle al piano terra erano le catene di un nobile fantasma che non prendeva pace, o quando s’inventava storie di spettri e ombre. Io, del resto – sempre dietro alle fantasticherie alimentate dalle letture di libri e libricini – ero perfetta per cadere nel tranello di quei racconti dello spavento che una volta appurata la verità finivano tutti con una risata.

Mia nonna era questo e molto di più.
Da lei bambina insieme alle mie sorelle trascorrevo spesso le feste di Natale: una gioia che ora – come una madeleine di Proust – ha il sapore della scirubetta fatta con la neve soffice e pulita che lei raccoglieva sul balcone e aromatizzava con amarene, mandarini o arance.

E da lei l’anno in cui miei zii – praticamente due ragazzi – tornarono da Torino dove lavoravano in Fiat e Pirelli, trascorsi anche un’Epifania indimenticabile. L’attesa carica di aspettative non andò delusa.
Io e le mie sorelle sapevamo in cuor nostro che quella sarebbe stata una Befana speciale: due zii che tornavano da Torino con i primi stipendi in tasca non potevano che aver parlato con la Befana per farci recapitare doni favolosi. A rendere tutto ancor più speciale ci pensò mia nonna. Buttate giù dal letto prestissimo – ma con lei era praticamente impossibile restare a poltrire – mangiato l’uovo cotto sotto cenere, indossati i vestiti della festa, raccolti in code, trecce e treccine i capelli quel 6 gennaio cominciammo a fare il giro della casa per trovare i regali della Befana.

Ora, siccome la casa di mia nonna era piuttosto grande, con le camere nelle camere e un “passetto” – così si chiamava il corridoio – che le collegava era facile perdersi e sperdersi dietro i suoi indovinelli: «guardate sotto i letti», «forse sono in cucina, nella credenza», «no, saranno nel salottino, sotto i divani», «sopra in soffitta, tra le scartoffie», «sotto, dove ci sono le botti di vino, chissà che non li abbia messi là…». Insomma fu tutto un andare e venire, sbirciare e ri-sbirciare, scendere e salire per le scale… ma dei giochi nessuna traccia. Sconsolate e ormai sul punto di mollare la caccia al tesoro, non ricordo se a venirci in soccorso fu mia madre o mia zia con un piccolo segno del capo verso l’alto.

Come non pensarci prima?! Poteva mai una nonna come la mia farci trovare i regali nei posti consueti o dentro la calza? Signornò! Alzammo gli occhi verso il soffitto che era piuttosto alto e meraviglia delle meraviglie là dove nessuno di noi avrebbe mai cercato, appese alle travi c’erano delle piccole, fiammanti biciclette che la Befana aveva comprato per noi naturalmente a Torino… Fu un attimo di gioia e luce la Befana torinese si materializzava davanti ai nostri occhi di bambine. La domanda all’unisono fu una e una sola: «Ma allora la Befana esiste veramente?».

La favola diventava realtà e portava con sé una lezione per la vita.
Alzare gli occhi, non rinunciare a sognare ma restare con i piedi per terra: ecco la lezione di quella caccia al tesoro inventata da mia nonna. Io non l’ho dimenticata neanche ora che mi son portata a casa le sue cose: i pettini del telaio, i fusi, e quei tesori di lino, cotone e seta che lei ha tessuto per me negli anni e che uso quotidianamente. La Befana torinese è ancora viva in certi “ti ricordi?” che si fanno con la famiglia al completo riunita a Natale.

“Ti ricordi quando nonna appese le biciclette al soffitto?” …


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