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Roberto Vecchioni (foto di Fabio Ledi)

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7 minuti per la lettura

“Questo era il gioco, questa la sfida delle giornate di follia: aggirare l’ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l’alternativo. Poteva durare anche a lungo questo aggrovigliarsi di nuvole e mondi, ma si atterrava, prima o poi si atterrava sempre”.

“Lezioni di volo e di atterraggio”, il nuovo libro di Roberto Vecchioni, edito da Einaudi è un viaggio letterario in 15 lezioni indirizzate ai suoi studenti di allora e a quelli di oggi, ma anche ai lettori disposti a scoprire man mano la meta e a perdersi in traiettorie mai scontate. Ogni lezione plana lieve su argomenti imponenti: il rapporto tra razionalità e immaginazione, la costruzione e la funzione del mito, l’origine dei modi di dire, il viaggio di Ulisse, la morte di Socrate, la genesi della parola, i versi di Alda Merini (con una sorprendente poesia inedita) o quelli delle canzoni di Fabrizio De André. Di volo e di atterraggio ma anche di amore, libertà, solitudine e luce ne parliamo con il Prof, cantautore e scrittore.

Ci si dava appuntamento in un parco, ci si metteva sparsi, chi in piedi, chi sdraiato e chi in braccio a qualcun altro, dopodiché s’iniziava… Vecchioni, erano queste negli anni Ottanta le sue lezioni “on the road” per dirla con Kerouac, queste quelle che lei chiama “giornate di follia” con i suoi alunni al parco…Alla luce di quel che sta accadendo oggi con la pandemia e la didattica a distanza potrebbe anche sembrare una sorta di scelta profetica?

«Vede i ragazzi oggi si stanno comportando praticamente come pensavo io allora. Amano la scuola perché la scuola è un incontro, un parlare l’uno e all’altro. La scuola è la loro vita, il raggio di sole. Non vogliono stare a casa, la scuola è coralità. E così ora scopriamo che il fatto che non vogliono andare a scuola è una barzelletta. La loro anima, il loro corpo hanno fame degli altri».

Nel libro ha scelto di chiamare gli studenti con i nomi di alcuni tra i più celebri pittori della storia, è una scelta solamente estico-stilistica o c’è dell’altro?

«Chiamarli con i nomi veri di grandi pittori è un divertimento per cominciare. Scoprirne l’identità è diventato un gioco anche per i lettori. Nel libro ci sono anche gli indizi come nel caso di Sanzio. C’è poi una motivazione più complessa dal punto di vista concettuale: i ragazzi sono pittori, dipingono la loro vita, hanno i loro colori e stili diversi. Ho scelto pittori – non musicisti perché con quelli di oggi era facile e quelli di ieri sono un po’ chiusi in se stessi – perché sono stravaganti come i ragazzi, specialmente le pittrici».

Raccontare storie, scegliere le parole – quelle e non altre – è un esercizio di responsabilità oltre che di significato, ritmo ed estetica?

«È tutto insieme. Ad uno come me che non sa far niente nella vita è capitato questo dono: capire che quello che stai scrivendo ha un ritmo, un’ andatura e una progressione che porta ad una emozione. Ma non è merito mio».

Imparare a volare e ad atterrare serve di più per conquistare il mondo o per conoscere se stessi?

«Tutte e due le cose ma più ancora che conoscere se stessi serve a diventare chi si è . E più che Socrate citerei Nietzsche e il diventa chi sei. Diventare chi sei dentro: questo i ragazzi se lo devono costruire. Ci sono due fasi nella vita: volare e atterrare. Non si può volare sempre, volare è un’eccezione, è la libertà ma poi c’è l’altro approccio che è la regola perché bisogna anche atterrare».

Tra le pagine – e quindi durante quelle lezioni così speciali – si va da Dante al calcio, da Platone a De André , da Borges a Alda Merini, dai Miti ai Vangeli. Ma, quanto conta l’esempio?

«L’esempio? Tantissimo. Io ho avuto dei buoni maestri che sono stati importanti. Il buon maestro è quello che non ti obbliga a nulla, è quello che ti stimola. I miei insegnanti mi hanno insegnato a fare così: mi hanno insegnato a insegnare».

Se dovesse scegliere una favola da raccontare ai bambini in questo Natale 2020 – che non sarà certamente solo luci, addobbi, alberi, regali e famiglia – quale sceglierebbe?

«“Alice nel Paese delle meraviglie” è il volo assoluto e poi ci sono favole di atterraggio che hanno una morale come “Cappuccetto rosso”».

E che dono farebbe?

«Io regalo libri oppure musica sconosciuta. Ho amici molto stravaganti devo fare ricerche molto appropriate. Insieme siamo del club “fuori hit parade” dalle classifiche di libri e musica».

Ai vecchi, invece, cosa regalerebbe?

«Regalerei dei nipoti che stessero sempre con loro. I vecchi non vogliono altro. Vorrei che per miracolo li potessero avere vicini sempre».

Cambiamo argomento. Professore il 1º dicembre 1970 viene approvata la legge sul divorzio, a lei chiedo cos’è l’amore e come si affronta il dolore di una storia che finisce?

«L’amore ha tante accezioni a seconda dell’età. Nel mio libro parlo dell’amore di un vecchio che dopo gli ottant’anni raggiunge la vera essenza dell’amore che non è schiavitù del sesso – anche se lo ha in mente – è una specie di calore che senti dentro, è tutto l’universo. Da giovani, l’amore è un tuono, un lampo, un baleno altissimo ma breve; poi verso i quaranta-cinquanta ne conosci la maturità: si attenua la punta di passione ma resta altissima la passione emotiva tra i due» .

Potremmo dire “le tre età dell’amore” per giocare con il nome di un celebre dipinto di Klimt?

«Le tre età dell’amore, sì. Io ora ho un’età per cui non subisco l’amore, non subisco più quella frenesia dell’altra età quando tutto sembrava crollare perché l’altro non c’era più. A trenta, a quarant’anni si ha l’istinto del cane: quando è uscito di casa è come se non tornasse più».

Torniamo alla pandemia. Tra le sue più celebri canzoni c’è “Samarcanda”: un soldato sopravvissuto ad una guerra appena finita che vede tra la gente festante una strana figura di donna vestita di nero…La parola morte in questi lunghi mesi ci accompagna ogni giorno insieme ai rendiconti dei bollettini sul contagio e sui esiti. Come si fa a convivere con questo rumore di fondo e avere una quotidianità quanto più normale possibile? Cosa ci salva o ci potrebbe salvare dall’angoscia e dalle paure?

«È proprio in questo momento che noi pensiamo molto alla morte. Citiamo il Prometeo di Eschilo che dice “io ho regalato agli uomini la capacità di superare la morte” e quando il corifeo gli chiede come lui dice “li ho resi ciechi con le speranze”… Noi normalmente non pensiamo alla morte perché abbiamo un sacco di cose da fare che ci portano via. Adesso, invece, non abbiamo il tempo di dimenticare la morte con il lavoro o con l’arte, ad esempio. Come si fa? Bisogna avere tanta pazienza e avere il coraggio di tornare a tutte le arti e poi a occorre non sgomentarsi col proprio lavoro e sapere che nel disastro non si è soli e questa è una buona consolazione».

Solitudine è un’altra parola entrata prepotentemente nel nostro abecedàrioquotidiano?

«Sto pensando ai vecchi… La cosa più brutta della morte è quando non tieni la mano a qualcuno che conosci, quel gesto è come una trasmissione di eredità di vita tra chi resta e colui che non ci sarà più. Ed è questo il momento più tragico del Covid. C’è poi la solitarietà di quelli che scelgono la solitudine, quest’ultima non è voluta e dipende da tante cose anche dalla povertà, dal non comunicare, dallo stress. La solitudine è uno dei drammi più grandi nostro tempo – non esisteva così prima – forse perché tutto è appiattito o perché non si ha più il piacere della scoperta di qualcosa».

Lei si sento solo?

«Io no – ride di gusto – ho un sacco di gente con me. Se voglio stare solo lo faccio di solito quando compongo o scrivo».

Se le parole si potessero tenere in tasca e ne dovesse scegliere solo tre da portare con sé sempre e ovunque, quali sceglierebbe?

«Quelle che sceglierebbero tutti: Amore per primo sicuramente, Libertà fondamentale e per la terza ci sono molte opzioni ma direi per esempio le Parole. Ecco porterei qualcosa che ha a che fare con le parole».

“C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce” diceva Leonard Cohen, da dove può arrivare la luce in questi giorni sghembi?

«C’è, c’è la luce, basta poterla cogliere. Ci sono ancora i maestri che sono luci; certo se vuoi fare il cretino o fidarti solo dei social o dei negazionisti le luci non le vedi. Le luci ci sono nel presente e anche dal passato: tutta la letteratura classica è una luce. Poi ci sono quelli che non vogliono vedere la luce e che anche quando passa dal buco tappano il buco».


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