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L’ORDINE è rassicurante, è prevedibile, è razionale. Per molti versi l’incremento della civiltà è stato propulso e sostenuto dalla progressiva razionalizzazione comportamenti dei comportamenti, delle aspettative, delle procedure. Max Weber, che ha fatto dello studio della razionalizzazione uno dei pilastri del suo pensiero, di questo processo aveva la potenza ma anche il lato oscuro e disumanizzante. Ed Herbert Marcuse riprendeva proprio il pensiero weberiano per spiegare come nella società capitalistica e tecnocratica, paradossalmente, la razionalizzazione conviva con terribili forme di irragionevolezza.

Come spesso si ricorda, Auschwitz era un luogo totalmente razionale ma delirantemente irragionevole. Le tecnologie digitali possono aprire nuovi spazi di originalità e di creatività ma nel contempo possono presentare, dietro l’attraente maschera della razionalità, il baratro di un ordine dove “tutto funziona” e dove, come affermava Martin Heidegger, il problema maggiore è proprio questo “funzionare”, che porta l’uomo ad essere semplice ingranaggio di un sistema, di un “impianto”.

La parola che forse più caratterizza questi nostri anni è “smart”: un misto di intelligenza e razionalità, di ottimizzazione delle risorse e comodità, ovviamente assistito da avanzate tecnologie digitali, che supportano le scelte e le azioni umane, individuali e collettive. Assistiamo ad una progressiva “smartificazione” del mondo; un paradigma che fa capolino anche nei processi di ideazione, progettazione e realizzazione di soluzioni urbanistiche in grado di rispondere efficacemente alle sfide della sostenibilità.

Ma siamo sicuri che l’ordine e la razionalità generino un mondo migliore, spazi urbani migliori, soluzioni abitative migliori? Richard Sennet, uno dei sociologi più lucidi in circolazione, se lo chiede da molto tempo, scrutando l’orizzonte degli eventi col suo sguardo lungo e spesso anticipatore. All’inizio degli anni ’70 scrisse un libro che fece epoca, lo intitolò “Usi del disordine. Identità personale e vita nelle metropoli”. Non sorprende allora che recentemente, esattamente dopo mezzo secolo, abbia ricondotto il suo ragionamento su questi temi, intrecciandolo con quello di un famoso architetto e urbanista, Pablo Sendra.

Il risultato è il volume “Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo” (Treccani, 2022). Il discorso che ne viene fuori è sicuramente non accomodante, in certi tratti provocatorio, sempre stimolante. In estrema sintesi: una intelligenza “normalizzata”, sorretta dalla potenza degli algoritmi, con l’obiettivo di ottimizzare tutto ciò che è ottimizzabile, di rendere ogni azione individuale e collettiva il più possibile programmabile, comoda e “razionale” ha dei tratti mostruosi, perché depotenzia la capacità degli individui di gestire autonomamente l’ambiguità, la contraddizione, la complessità, di costruire soluzioni attraverso il rapporto diretto, anche conflittuale, con l’altro.

Secondo Sennet l’identità adulta si genera attraverso l’incontro e lo scontro, il dialogo e la differenza, affrontando e imparando a gestire situazioni impreviste, inaspettate. Le smart city, le città “intelligenti”, almeno nella versione attualmente dominante, sono luoghi “iperdeterminati”, dove tutto tende ad essere predeterminato, previsto e gestito, grazie alle tecnologie digitali, attraverso modelli di ottimizzazione delle soluzioni e di “semplificazione” della vita degli abitanti.

Eppure – per Sennet – la città algoritmica, comoda e razionale, è una città fragile, perché minimizza gli spazi e le occasioni di improvvisazione e depotenzia la capacità degli abitanti di affrontare autonomamente la complessità. Il rischio insomma è che la razionalità perda ragionevolezze e trasformi le nostre città in luoghi distopici dove c’è sempre meno sorpresa, dove gli abitanti perdono progressivamente la possibilità di stupirsi, di incontrarsi/scontrarsi, di dialogare, diventando sempre più ingranaggi di un impianto in cui tutto funziona, fuorché la vita.

Insomma, il paradosso di città sempre più intelligenti ma con cittadini sempre più stupidi, rigidi, incapaci di gestire la contraddizione e insita nelle cose e negli eventi, come degli adulti dovrebbero invece fare. In fondo, storicamente, le città sono stati luoghi di composizione tra istanze di ordine e istanze di disordine; sterilizzare le seconde a vantaggio di un mondo sempre più asettico e standardizzato, “capitalisticamente” prevedibile, può farci precipitare nel baratro della razionalità irragionevole.

Come ha saggiamente fatto notare Rem Koolhaas, le smart city usano forme, rappresentazioni, modalità comunicative ipersemplificate, con colori accesi e angoli smussati, come se fossero abitate solo da bambini. Offrono soluzioni per tutte le situazioni, soluzioni “assistite” e comode ma non hanno alcun interesse a che i cittadini comprendano i meccanismi e le complessità che sono dietro le soluzioni. È come se le persone dovessero essere costantemente protette da tutto.

Ma precisamente, da cosa? Dalla loro capacità di sviluppare pensiero critico, si potrebbe azzardare. La società va preservata dall’attitudine degli individui a generare “disordine”, pensiero non allineato, perché il capitale ha bisogno di prevedibilità. E anche la narrazione di gran moda della personalizzazione, del valore della diversità e della unicità di ognuno è – innanzitutto e per lo più – un grande inganno, un sofisticato trucco illusionistico, perché ogni diversità deve essere (e viene) comunque ricondotta a modelli “razionali” di scomposizione, riaggregazione, gestione algoritmica funzionale e funzionante. Una uniformità differenziata, insomma, o una differenziazione uniformata…

Si moltiplicano ad ogni latitudine smart city in cui i tempi di vita sono sempre più minuziosamente programmati da sistemi di intelligenza artificiale a cui i cittadini di fatto delegano quote sempre più ampie di gestione della loro esistenza. L’idea di fondo che ne supporta la logica è che più si lasci l’organizzazione della quotidianità alle persone, più il risultato sarà un irrazionale e scoordinato spreco di risorse (energetiche, finanziarie, psicologiche…), mentre se tutto viene “coordinato” da una intelligenza superiore che tutto vede e tutto supervisiona, che tutto integra e tutto controlla, se ne guadagnerà in sostenibilità e vivibilità.

Ma qui si apre un colossale iato tra vivibilità e vitalità, tra vivibilità e vivacità, tra vivibilità e vita! Viene in mente la lucida riflessione di Günther Anders per cui sempre più le tecnologie non sono affatto mezzi ma “decisioni preliminari”, decisioni che ci riguardano e che vengono prese ben prima che tocchi a noi decidere.

Anzi, per Anders il consegnarsi all’ossessivo paradigma delle soluzioni ad alta tecnologia, rappresenta “la” decisione preliminare, che una volta presa ci immette in un percorso irreversibile, in cui non esistono singoli “apparecchi” ma dove è la tecnologia nella sua totalità integrata ad essere il vero mega-dispositivo imperante; non più un insieme di mezzi che usiamo intelligentemente ma la stessa sostanza del mondo in cui siamo condannati a generare vivibilità senza vita, differenza senza diversità, a funzionare piuttosto che esistere. Con irragionevolissima razionalità. Stupidamente.


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