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Caresse Crosby

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Con il reggiseno, o reggipetto, come diceva la nonna, ci andavo anche a dormire. Non concepivo una vita “senza”. Ora lo sento come una tortura, uno strumento che imbriglia: carne, ghiandole, grasso e pensieri. Da quando sono diventata una tettona doc sentire ballonzolare quell’ammasso roseo ad ogni passo o movimento mi provocava enorme disturbo e imbarazzo. Adesso, invece, lo vivo come il trionfo del bene sul male. Mi sento come Gollum con l’anello, Arya Stark e Ago.

Potente, padrona di me stessa e del mio corpo. Almeno finché sto in casa o vado a buttare la spazzatura sotto casa o, santa zona gialla, mi allungo al solito bar a prendere il classico cappuccino e cornetto. Quando esco e vado oltre la mia comfort zone, fuori nel mondo, ancora sono vittima delle convenzioni, dello sguardo degli altri esseri viventi, del potere del ferretto, quindi spezzo il cerchio magico della mia ribellione e lo indosso, aspettando solo di rientrare in casa e poterlo togliere.

«La fine della presidenza di suo marito è stata l’equivalente di togliersi il reggiseno dopo una lunga giornata, in termini di completa libertà o è ancora soggetta a certe restrizioni?», chiese la comica Gina Yashere a Michelle Obama nel corso di una intervista a più voci sul Guardian, nel 2018. «Ah! Adoro questa domanda» rispose Michelle. Giusto per capire quanto fastidioso sia tornato a essere considerato l’oggetto reggipetto dopo la rivalutazione del post femminismo, superato il “tremate tremate le streghe son tornate” quando con fierezza lo si bruciava nelle pubbliche piazze.

Sempre sul Guardian, a fine luglio del 2020, Emine Saner, scriveva un lungo articolo in morte del reggiseno: “durerà la grande liberazione dalla lingerie dopo il lockdown?”. Centosette anni dopo il brevetto del primo reggiseno dell’epoca moderna, 12 febbraio 1914, il tema è quindi ancora aperto. Anzi in pieno rilancio, soprattutto dopo le poppe in bella mostra su serie di grande successo come Bridgerton e The Great, che sono tutte un mostrare quelle adorabili “montagnole” che “imitano la guancia” e sono lì, pronte per sbucare fuori. L’argomento ha fatto talmente tanta presa che l’autorevole rivista Smithsonian, in duemila battute ha deciso di affrontare l’argomento: “le poppe al vento di Lady Featherington sono vere o no?”. «I corsetti e le stecche del periodo della Reggenza erano progettati meno, per creare la scollatura che il pubblico moderno trova attraente, e più per sollevare e separare i seni come “due globi rotondi”», afferma perentoria la storica dell’abbigliamento Hilary Davidson, chiudendo l’argomento corsetti.

«I seni, ci è stato detto per secoli – scrive Emine Saner – devono essere vivaci e pieni (e i capezzoli non devono essere visibili). L’atto di abbandonare il reggiseno ha sempre avuto inevitabili connotazioni politiche – come, noiosamente, ogni scelta personale che una donna tende a fare – al di là della preoccupazione per le cinghie che scavano dentro e dei ferretti che spuntano fuori. E il lockdown ha accelerato, piuttosto che creato, una tendenza crescente verso la liberazione dal reggiseno». Sarà poi vero? I temibili ferretti, solleva e strizza, tutti un pizzo e un ammiccamento, sono davvero arrivati al capolinea, preferiti a più comodi oggetti in rude cotone a fiorellini e spallina larga? Non ne sono affatto certa. In fondo, per dirla alla Kundera, il reggiseno deve sostenere qualcosa che per colpa di un calcolo errato della natura è più pesante del dovuto, e perciò ha bisogno di un’armatura supplementare, un po’ come il balcone di un edificio costruito con imperizia, che si deve puntellare con pilastri e sostegni perché non crolli. Forse, ripensandoci, potrei tornare al cestus, un corpetto di cuoio morbido che, secondo la leggenda, fu inventato da Venere per la prosperosa Giunone. Come prosperosa era Mary Phelps Jacob.

Il 12 febbraio del 1914, Mary Phelps Jacob, ventenne ereditiera americana, pronipote del celebre Robert Fulton, richiese alla United States Patent and Trademark Office, l’Ufficio Brevetti di New York, il riconoscimento di una sua curiosa invenzione, ricevendone il 3 novembre successivo il relativo attestato dal numero 1,115,674, per il “reggiseno senza dorso”. La relazione tecnica del brevetto recitava: “È tra gli scopi di questa invenzione fornire un indumento che offra, combinate fra loro, alquante caratteristiche nuove e utili, tra cui tra l’essere privo della parte posteriore, utilizzabile perciò senza preclusione con gli abiti molto scollati. È inoltre talmente valido da tornare utile a donne impegnate in violenti esercizi fisici, o sport come il tennis, senza ostacolare alcun movimento”. In piena seconda guerra mondiale in effetti il tennis era da considerarsi un violento esercizio fisico o sport estremo, Il giardino dei Finzi Contini, insegnano.

Un nastro rosa, spilli, ago, filo e due fazzoletti inizia tutto da qui. Siamo nel 1912, a New York, Mary Phelps Jacob, è giovane e benestante, ha discendenze nobili e deve partecipare all’ennesimo ballo che la società impone e che una socialite come lei non può disertare. L’abito che vuole indossare ha una profonda scollatura ed un tessuto leggero. All’epoca il solo capo intimo accettabile era un corsetto fatto da stecche di balena. Mary, che era una tettona, con raccapriccio si accorge che le stecche di balena si vedono dalla scollatura del vestito e intuiscono da sotto il diafano tessuto. Giammai le passò in mente di cambiare mise, per cui chiamò la cameriera personale si fece portare un nastro rosa, spilli, ago, filo, due fazzoletti e creò il suo reggiseno.

Riscosse talmente tanto successo tra le amiche, che le chiesero come facesse a muoversi tanto liberamente, che capì che dalla cosa poteva nascerne un affare. Nel frangente Mary, conosciuta come Polly, per distinguerla dalla madre che aveva lo stesso nome, aveva sposato Richard Peabody e con i fondi del marito fondò una società, che non funzionò un granché però. Il secondo marito Harry Crosby, che l’avrebbe spinta qualche anno più tardi a cambiare il suo nome in Caresse Crosby, la convinse a vendere il brevetto alla Warner Brothers Corset Company per 1.500 dollari (cifra equivalente a circa 21.000 dollari).

Da lì poi la storia diventa contemporanea. Per amore di precisione bisogna dire che, precedentemente a Mary Phelps, più di qualcuno aveva già avuto l’idea di creare un reggiseno, e che altri uffici brevetti di altri paesi avevano rilasciato il brevetto per una invenzione simile nel 1860. C’è a dirsi anche che il termine reggiseno fu utilizzato per la prima volta da Vogue nel 1907 e la francese Madame Hermione Cadolle, durante l’Esposizione Universale di Parigi del 1889 presentò un corsetto tagliato a metà chiamato “soutien-gorge”, cioè “corsetto-seno”. Nel 2008, poi, durante dei lavori di restauro condotti nel castello di Lengberg – si legge niente di meno che sul sito della Difesa – nel Tirolo orientale, diretti da Harald Stadler, dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Innsbruck, in una intercapedine fu trovato un ammasso di stracci e di rifiuti, per lo più pezzi di legno, vecchie scarpe e indumenti, per un totale di 2.700 pezzi.

Tra gli stracci affiorarono 4 reggiseni, di modernissimo taglio e un perizoma con due lacci laterali, simile agli odierni bikini. Che non si trattasse di rifiuti recente fu presto confermato da cinque analisi al carbonio 14, eseguite nel Politecnico Federale di Zurigo. Nessun dubbio i reggiseni e il perizoma risalivano al XV secolo, per l’esattezza al periodo compreso tra il 1440 ed il 1480. Ma la storia dei fazzoletti, dei balli, della New York del 1910 unite alla figura di Polly Peabody, Polly Crosby, Caresse Crosby, che nel tempo divenne editrice e scrittrice erotica, “madrina della generazione perduta di scrittori emigrati a Parigi”, resta la più sognante, incoronandola ancora oggi come l’inventrice del reggiseno.


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