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Mai come in politica vale il detto: una rondine non fa primavera. Se andiamo a ritroso e vediamo per esempio l’ultima fase della cosiddetta prima repubblica, troviamo numerosi casi in cui risalite della Dc o incrementi del Pci venivano interpretati come segni a seconda dei casi o della tenuta del vecchio sistema o dell’avvento incombente dell’opposizione al potere. Non è andata così e il sistema poi è crollato quasi di punto in bianco.

I movimenti in politica sono spesso lenti e sussultori. Probabilmente sta accadendo così anche oggi. E comunque è bene tenere conto che tutto si inserisce in un sistema più generale che certo subisce l’impatto degli eventi, ma che cerca di assorbirli in qualche modo, anche se non è detto che ci riesca.

Vediamo dunque di cogliere qualche elemento in quel che sta davanti a nostri occhi. Innanzitutto il fenomeno del pesante astensionismo. Ha indubbiamente molte cause ed è un fenomeno composito perché le ragioni per cui ci si astiene possono essere diverse. Ci permettiamo di sottolineare che un contributo non secondario all’astensione l’ha dato l’orgia di demagogia a cui abbiamo assistito. Quando si gioca a scatenare il disprezzo della gente per la fatica della politica, non ci si deve stupire se poi gli “arrabbiati” votano coi piedi disertando le urne. Non è quello che si aspettano i demagoghi, ma va così.

Poi c’è l’astensionismo di chi non si fida più della “parte” a cui si sentiva legato, ma che non per questo è disposto a votare per alternative che gli paiono peggiori. Il famoso invito a “turarsi il naso e votare X” non funziona più: in quel caso si resta semplicemente a casa. Infine c’è l’ampliarsi della sfera di cittadini che sono convinti che tanto chiunque vinca per loro cambia poco: nell’immediato è vero, sul medio e lungo periodo non è così, ma ci vorrebbero mediazioni culturali e politiche per farlo capire e queste sono scarse o mancano del tutto.

A prescindere dal problema dell’astensionismo, che seppure a ritmi non travolgenti continua a crescere, c’è la conta da fare di chi ha vinto e chi ha perso, ma soprattutto di come ha vinto o perso.

Perdente in questa fase è sicuramente il centrodestra. Guadagna solo la Meloni, che però tende a ritornare nella riserva indiana delle antiche conventio ad excludendum, perché non riesce a lasciare le spiagge del fu “polo escluso” missino. Peraltro la sua scelta a Roma non sfonda oltre le disponibilità della destra. Esce pesantemente ridimensionato Salvini che vede confermato quel che avrebbe dovuto capire già dalla sconfitta alle regionali in Emilia Romagna: non è più tempo di proporre avventure ed esperimenti, per non parlare di fughe dalla realtà trasformando sé stessi in icone stravaganti. Però il ridimensionamento di Salvini non è detto corrisponda a quello della Lega che ha accumulato un suo patrimonio di esperienze di governo, anche mostrando capacità di riconvertire certe rotte (vedi il caso della Regione Lombardia sulle politiche di contrasto al Covid).

Sicuramente esce maluccio dalla prova anche Forza Italia. A parte il successo in Calabria (ma lì si giocava sulla debolezza degli antagonisti come è successo anche per le vittorie del centrosinistra), è ridotta ad una presenza più che modesta: paga il prezzo di una assenza di classi dirigenti locali, un terreno su cui non ha mai veramente investito.

A pezzi escono anche i Cinque Stelle che sono ridotti ad una modesta appendice del PD, esattamente il contrario di quanto volevano fare. Assieme alla loro storica carenza di classi dirigenti locali, scontano il loro fallimento come perno del sistema politico nazionale nelle due versioni dei governi Conte. Il tempo del “vaffa” è tramontato di fronte allo shock della pandemia (difficile battere il virus mandandolo a …), quello delle utopie rigeneratrici, vedi la storiella dell’economia ciclica sui rifiuti che risolveva tutto, è naufragata nel caos della “monnezza” romana.

In questo quadro ad uscirne bene è solo il PD? Dipende. Indubbiamente ha tratto profitto dall’essere rimasto l’unico partito che ha ancora una classe di politici sperimentati e che mantiene una certa “struttura” che gli consente di non agire proprio come un agglomerato alla mercé di tutte le pulsioni del momento (scivoloni in queste direzioni non sono mancati, ma fa parte delle debolezze umane). Però deve avere il coraggio di imporre una sua leadership tanto a quel che resta dei Cinque Stelle, quanto al variegato, ma non minuscolo mondo dell’estrema sinistra.

Deve insomma ritrovare la via per tornare ad essere la casa del riformismo, che è ciò che serve in questo momento, impresa né banale, né facile. Non può fingere che non esista su questo terreno una duplice sfida. Da un lato quella, ormai evidente, che pone la suggestione di affidarsi ai “tecnici”. Intendiamoci: Draghi non lo è affatto, è un politico di razza con importanti competenze tecniche, le quali però possono essere sfruttate bene proprio per il suo essere un politico. Non è però detto che tutti colgano questo aspetto e dunque potrebbe nascere la tentazione di affidarsi al governo dei tecnici: una scelta che raramente porta bene.

Dall’altro lato il PD deve recuperare quelle forze riformiste che si sono allontanate da lui stufe di fuochi d’artificio dei vari guru nostalgici del verbo di una presunta sinistra. Non è cosa che si possa fare alla buona, per le diffidenze reciproche che si sono accumulate, ma va fatta perché, come dimostra l’avventura di Calenda, da quelle parti c’è una sostanza da recuperare. Entrambi i versanti debbono rinunciare all’idea che l’altro torni a Canossa, e invece aprire un confronto serio.

Perché questo test elettorale, peraltro non ancora concluso (i ballottaggi a Roma e a Torino sono passaggi non banali), non ha dato ragione a nessuno dei contenenti che si sono disputati i palcoscenici dei talk show. Ha mostrato solo che il mondo sta cambiando e che sarebbe bene ragionare come stare dentro questo cambiamento, anziché giocare a profetizzare come sarà in futuro.

 (Tratto da Mente Politica)


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