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Dietro quella che per anni è stata considerata una dinasty, una lotta intestina per spartirsi l’eredità della principesca famiglia Torlonia, si cela l’ennesimo default di un istituto bancario. Non uno qualsiasi, ma la Banca del Fucino spa, la più antica banca romana, fondata nel 1923, con 32 filiali, di cui 19 nella provincia di Roma e le altre in Lazio, Abruzzo e Marche, per un totale di 337 dipendenti.

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Tutto sarebbe stato derubricato sotto la voce “parenti-serpenti”, uno scontro tra il 69 enne primogenito Carlo Torlonia e il suo giovane nipote Alexander-Francis Poma Murialdo. Una disputa ereditaria tra vip di nobile lignaggio interessati a impadronirsi dell’immenso lascito del principe Alessandro Torlonia, scomparso a 92 anni, nel 2017. Era vero ma solo in parte. Il Tribunale ordinario di Roma ha infatti sollevato il velo e accolto, sia pure in modo parziale, la richiesta dello zio ricorrente: 39 mln, 468.592 di euro tra beni e conto correnti sequestrati.

 Sotto i riflettori del giudice Cecilia Bernardo è finito l’Accordo-quadro firmato da Poma Murialdo, 38 enne amministratore della Banca del Fucino (BdF), con Banca Igea spa nel dicembre del 2018. Un’intesa di vendita il cui contenuto è rimasto a lungo top-secret, nonostante le ripetute ingiunzioni del Tribunale di Roma ad “esibirlo” ai soci di minoranza ai sensi dell’ex articolo 609 duodecies. Sotto accusa “per condotta omissiva” è finito anche l’intero collegio sindacale.

BDF PAGATA 1200 EURO

Il patto tra banche prevede la cessione di BdF, valutata nel 2016 circa 390 milioni di euro, per la cifra simbolica di 1200 euro, alla Igea Spa, che da parte sua si impegna a non sollevare questioni di responsabilità “in caso di anomalie delle gestioni precedenti”. In pratica, in un colpo solo l’immunità e l’azzeramento del valore della banca romana.

Per inciso, Banca Igea Spa, istituto con base in Sicilia, è presieduta da Mauro Masi, ex direttore generale Rai e attuale presidente Consap, nonché ex funzionario di Bankitalia. Ha 4 filiali: a Roma, Catania, Palermo e Bronte e un piano di rilancio che punta su digitale e private banking. Il manager è Francesco Maiolini, reduce dalle turbolenze della Popolare di Vicenza, in rotta con Gianni Zonin e legato in passato ad ambienti forzisti e cuffariani. L’accordo prevede la ricapitalizzazione per un ammontare di 200 milioni di euro e la cessione a terzi di crediti deteriorati per 314 mln di euro.  Esclude però che possano entrare nella nuova banca con una loro quota gli altri soci di Torlonia partecipazione Spa. La holding di famiglia, titolare direttamente e indirettamente, per il tramite di Finvest spa, dell’87,55% del capitale sociale di BdF e presieduta anch’essa da Alexander Francis Poma Murialdo. Inoltre, come se non bastasse, la holding, ormai spogliata di ogni patrimonio, dovrà versare 6 milioni di euro per ripianare il deficit e una cifra non ancora definita, compresa tra i 14 e i 25 milioni entro il dicembre 2021.

Ed eccoci dunque alla madre di tutte le domande: come ha potuto un istituto di cosi antica tradizione, ramificato sul territorio, con un feeling Oltretevere consolidato, andare a picco bruciando poco meno di 400 milioni di euro nell’arco di 3/4 anni?

La risposta è nelle carte che i giudici hanno visionato. E in particolare nei due report relativi ad altrettante ispezioni di Bankitalia. Avrebbero dovuto far scattare l’allarme rosso. I primi accertamenti avviati nel febbraio del 2017 si erano conclusi con “risultanze sfavorevoli”. Irregolarità, verifiche varie, documentazioni non riscontrate. Bankitalia ha inoltrato il verbale alla Procura e trasmesso le relazioni alla Consob. Il 5 giugno dello stesso anno ha irrogato una sanzione pecuniaria di 350 mila euro. Nonostante i ripetuti richiami di via Nazionale «l’azienda – si legge nella relazione degli ispettori –  ha ritardato – l’adozione di misure volte a superare le criticità e a contrastare il progressivo deterioramento del quadro tecnico, compreso dalla scarsa qualità degli impieghi e degli equilibri strutturali della redditività». Per superare lo stato di dissesto BdF ha presentato nel 2018 una istanza al Fondo interbancario di tutela dei depositi per un apporto pari a 40 milioni di euro. 

OPACITÀ E CLIENTI POLITICI NASCOSTI

I guai iniziarono subito. Senza un riassetto critico del grado di rischiosità del portafoglio, la copertura dei prestiti deteriorati crebbe dal 32% al 50%. Tra dicembre 2016 e marzo 2017 gli ispettori di Bankitalia registrarono ben 70 mln di svalutazione sui crediti, nel dettaglio 288 rapporti riclassificati tra le sofferenze per circa 63 milioni. L’esercizio 2016 si era chiuso con una perdita secca di 47,5 mln “con rilevanti impatti patrimoniali”.  La banca insomma cominciava a fare acqua da tutte le parti all’insaputa dei correntisti che pure, a differenza di altri fallimenti, escono illesi da un naufragio rimasto finora sommerso.

Non è bastata l’acquisizione del prestigioso immobile di via Tomacelli n.139, già detenuto in locazione dalla Società romana di partecipazioni sociali spa, (Sprs) titolare dell’8% delle azioni di BdF per rafforzare il patrimonio. Valutato 30,4 mln, l’immobile è stato ceduto dal capostipite, all’epoca malato ma ancora attivo, a fondo perduto. 

Emergono dalla relazione degli ispettori di via Nazionale particolari inquietanti. I prestiti ad esempio venivano registrati su una semplice agenda, come dal salumiere. “In diversi casi – si legge infatti nella relazione – la concessione o il rinnovo di fidi temporanea è avvenuta sulla base di meri “promemoria” per la direzione, senza alimentazione dell’applicativo dedicato e senza il rispettivo dei limiti di delega”. In 15 casi, su richiesta del collegio sindacale, si è scoperto l’assenza di qualsiasi ratifica da parte del Cda”.  Ma c’è di più. Molto di più. Tra le questioni sollevate dalla vigilanza di Bankitalia si lamentano “debolezze nella profilatura della clientela e nei “presidi antiriciclaggio”, in particolare viene rilevata  “la mancata inclusione tra i clienti ad alto rischio – testuale – di diversi soggetti interessati dagli organi inquirenti e di alcune controparti collegate a politici nazionali”.

 Sullo sfondo resta certamente anche lo scontro tra Carlo Torlonia, che detiene il 24,5 della holding, e il nipote, Poma Murialdo, figlio di Paola Torlonia. Carlo aveva già presentato ricorso avverso la delibera assunta nel dicembre del 2018 in cui si comunicava ai soci il dissesto e la vendita a costo zero della banca ottenendo una sospensiva.   

La questione è tanto più delicata se si pensa al ruolo di fiduciaria Ior che la BdF ha avuto in passato. Il principe, dal carattere burbero, per molti anni è stato infatti assistente al soglio di Sua Santità. Il laico più vicino al Papa. Il sequestro conservativo disposto dalla XVI Sezione civile del Tribunale di Roma ha risparmiato i gioielli di famiglia: la collezione di antichi Marmi, valutata circa 1 miliardo e 600 milioni, Palazzo Torlonia e Villa Albani. Ma la perdita della “sua” banca lo avrà fatto rivoltare più volte nella tomba.


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