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Non si tratta di aiutare gli zoppi, ma di avere una visione moderna dell’economia e di smetterla di chiedere al capitale privato di fare quello che non può fare. Perché non ha le risorse, perché non lo sa fare, perché si è abituato alla cultura estrattiva della rendita. Perché ha assecondato la scelta miope di sacrificare i campioni nazionali che hanno un peso globale per privilegiare la scorciatoia dell’integrazione diretta di un pezzo della manifattura lombardo-veneta-emiliana con il Nord dell’Europa. Si è deciso di assestarsi come subfornitori essenzialmente della grande manifattura tedesca al traino delle scelte strategiche e delle fortune altrui.

Una domanda semplice semplice: gli altri Paesi europei hanno una politica industriale? Risposta: sì, enormemente la Francia; abbastanza, la Germania. Si può discutere sugli strumenti, i mezzi, i capitali, le impalcature pubbliche e private, non sulla sostanza di dotarsene e sulla necessità di impegnare su questo terreno le migliori risorse disponibili. Invece, in casa nostra prevale il ciclostile del politicamente corretto che è quello che fa finta di affrontare il problema secondo non si capisce bene quali regole, ma di fatto contribuisce a trascinare il Paese nel baratro. Perché immobilizza scelte politiche, procedure di spesa pubblica e debolezze capitalistiche degli ultimi venti anni che hanno spezzato in due l’Italia e, sotto la spinta di un vento nordista di corto respiro, hanno minato la competitività delle merci italiane e indebolito la sovranità economica nazionale.

Per farci capire, insistiamo su un esempio: Eni, Enel, Terna, Saipem, Fincantieri ricoprono d’oro Cassa Depositi e Prestiti che ne ha ereditato partecipazioni di maggioranza, ma sono nate all’interno dello Stato imprenditore, sono il frutto di una cultura industriale pubblica che ha garantito al passato e garantisce al presente primati fuori dai confini di questo Paese. Perché non si può tornare a scommettere con la stessa visione di medio termine su un settore strategico come l’acciaio di qualità che è tra l’altro una materia prima necessaria per la nostra industria meccanica e quella tedesca?

Perché non si può fare altrettanto nella riqualificazione dei siti industriali e dei territori adiacenti che si presenta come uno dei business globali del futuro? Chi ce lo impedisce avendo, per di più, una grande banca italiana che, per una volta, esce dal recinto screditato di pensiero e di opere dei tanti padroncini del vapore italiano? Chi ci impedisce di invertire i termini della questione industriale della compagnia di bandiera occupandoci prima di definire un piano integrato degli hub italiani a vocazione turistica e di indirizzare così il flusso di arrivi del turismo internazionale verso la compagnia di bandiera e non le compagnie low cost?

Ma è possibile che, al di là delle figure da operetta che facciamo in Europa e in Italia su scudo penale e Salva-Stato, dobbiamo stare lì a inseguire un colosso industriale franco-indiano che ancora non si capisce se è venuto in Italia per rilanciare l’altoforno più innovativo di Europa o per chiuderlo e toglierlo di mezzo? O che dobbiamo invocare l’elemosina a carissimo prezzo della Delta Airlines che vuole prendersi una gran parte della polpa dei traffici italiani e non cede nulla sulle quote intercontinentali in compartecipazione?

Perché non la smettiamo una volta per tutte di inseguire soggetti pubblici per Taranto o patrioti privati per l’Alitalia tra ambiguità e incroci malsani con la logica sempre emergenziale (questo è il problema) di chi sta con l’acqua alla gola e chiede aiuti a fondo perduto? Perché non chiediamo/pretendiamo altro e, cioè, progetti industriali di medio termine, capitali pubblici di mercato e competenze finalizzate, da scegliere dove si trovano e cioè nell’ex area imprenditoriale dello Stato e non in quella del fantomatico imprenditore privato che è sulla bocca di tutti i commentatori ma ha la caratteristica di non farsi mai beccare semplicemente perché non esiste?

Per piacere, un po’ di serietà: sono in gioco due gangli vitali (Ilva e Alitalia) di quella che è stata l’Italia per continuare a fare buona manifattura e cominciare finalmente a innovare nell’offerta turistica; è interesse di una classe politica degna di questo nome impegnare lo Stato imprenditore non gli imprenditorini del private equity in un disegno industriale in grado di produrre reddito stabile e occupazione duratura affrancando il Paese da colonialismi – questi sì – sempre più inaccettabili. Non si consenta a Arcelor Mittal di continuare a traccheggiare. Se vuole essere della partita alla luce del sole e alle condizioni giuste ben venga e si rafforzi allo stesso tempo la quota di Intesa Sanpaolo che ha avuto il merito (assoluto) di smentire con la sua disponibilità a intervenire (1 miliardo) tutti i professorini della narrativa economica italiana. Che stanno lì a questionare su chi ci mette i soldi e, soprattutto, sulla follia di chi lo farebbe perché se c’è un capo azienda che sa che cosa è il mercato di oggi e di domani questo si chiama Carlo Messina e nessuno si può permettere nemmeno di pensare che possa fare un piacere a qualcuno.

Altrimenti, se il colosso franco-indiano ha giocato e gioca sporco o comunque fa lo schizzinoso, operi lo Stato imprenditore con i suoi uomini migliori e i capitali che ha. Ne approfitti, peraltro, per dare una lezioncina a quelle Fondazioni che la fanno da padroni in Cdp. Ripetono ogni giorno come un disco incantato che non si gioca con il risparmio postale e lo hanno invece fatto alla grande con imprese familiari piccole e medie, quasi tutte del Nord, quasi tutte in difficoltà, a volte uscite dalla difficoltà, a volte ricadute nelle stesse difficoltà, a volte ricadute in difficoltà di livello superiore. Sempre nascondendosi dietro la foglia di fico dei fondi di private equity e di un’autonomia che può essere anche distanza, ma di sicuro non consente all’Italia di tornare a ragionare in grande e sempre di sicuro ha avuto il suo capitale di avviamento in quella Cdp che ha in affidamento le centinaia di miliardi che sono lo stock nazionale del risparmio postale italiano.

Ripeto la domanda: ma davvero abbiamo deciso che questo Paese non può avere una politica industriale come è stato capace di darsi alcuni decenni fa producendo le galline dalle uova d’oro ex pubbliche, tutte fatte confluire oggi in Cdp? Ma come è possibile che Intesa Sanpaolo che ha performance da primato comprenda che è importante esserci in questa sfida industriale che è la sfida del futuro e tutti gli altri scappino?

Ma è possibile che in questo Paese si riesce a litigare anche su temi molto seri dove non c’è nulla di nuovo (Meccanismo europeo di stabilità/Fondo Salva-Stati) sempre per crisi interne dentro la maggioranza con spezzoni sovranisti-populisti della compagine di governo e della opposizione (la Lega) che si ricompattano per provocare, fare finta di insegnare a chi ne sa più di loro?

Fino a quando si continuerà a fare il solito polverone italiano per cui non si discute del vero pericolo che è l’Unione bancaria alla tedesca (ma di questo parleremo successivamente in modo approfondito) e ci si copre tutti di ridicolo in Europa? Abbiamo documentato, con dati tutti certificati dalla contabilità nazionale, la doppia operazione verità sulla distribuzione della spesa pubblica e nessuno ora può più far finta di non vedere. I fondi di coesione che il Sud non è capace di spendere non esistono perché sono contingentati da una “cassa” che risente dei vincoli di finanza pubblica contratti con l’Europa e degli arrembaggi preventivi del Nord alla spesa pubblica.

I fondi della spesa pubblica ordinaria per il sociale e per le infrastrutture sono indirizzati ingiustificatamente a favore del Nord e a spese del Sud per qualcosa che vale 60 miliardi l’anno grazie al trucco della spesa storica abilmente adottato con la legge Calderoli del federalismo fiscale del 2009. Sono passati dieci anni: il ricco è sempre più ricco e il povero sempre più povero. Soprattutto decine e decine di miliardi l’anno sono andate a ingrassare la spesa allegra dei carrozzoni regionali del Nord e dell’arcipelago di enti collegati e, a volte, addirittura della criminalità organizzata. In tutto questo grasso che cola ce ne è a sufficienza per recuperare il capitale di uno Stato imprenditore che affronti correttamente le spinose questioni aziendali italiane e torni a fare infrastrutture di sviluppo nel Mezzogiorno. Questo significa fare politica industriale. Questo è quello che serve al Paese per l’oggi e per il domani. Il resto sono chiacchiere e ipocrisia di uomini ricchi ma piccoli e di cortigiani pennivendoli. La misura è colma.


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