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Lo staff delle ricercatrici italiane che hanno isolato il coronavirus

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SCOPRIRE che i primi in Europa a isolare il “coronavirus” siamo noi italiani, è motivo di soddisfazione. Scoprire che a farlo è un team affiatato di tre donne, due ricercatrici rispettivamente di Ragusa e Campobasso, Concetta Castilletti e Francesca Colavita, e una coordinatrice di Procida, la direttrice del laboratorio di virologia Maria Rosaria Capobianchi, la dice lunga su pregiudizi e capacità della ricerca italiana. Che tutto ciò avvenga all’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma che ha come direttore scientifico Luigi Ippolito, nato 65 anni fa a Sant’Arsenio, un piccolo paesino del Vallo di Diano, in provincia di Salerno, accresce il nostro orgoglio.

Le buone notizie finiscono qui. Siccome anche con l’Ebola andò così, non ci vorrebbe molto a decidere che se si vuole finanziare la ricerca in questo campo si mette la gran parte dei fondi sull’Istituto romano perché funziona. State tranquilli che non è andata e non andrà così perché le erogazioni pubbliche conoscono solo l’indirizzo di cliniche universitarie pubblico-private, scuole di specialità, facoltà universitarie, tutte rigorosamente collocate nelle aree ricche del Paese. Proviamo ovviamente ribrezzo a dovere constatare che chi dedica una vita alla ricerca, a Roma e da Roma in giù, con risultati semplicemente straordinari, può arrivare a cinquant’anni e avere un contratto co.co.co da 1500 euro al mese e un gettone per ogni ora di lavoro domenicale da fare impallidire. Tra livelli essenziali di assistenza (Lea) fatti su misura di chi ha un reddito più elevato, criteri di finanziamenti delle università pubbliche e private costruiti ad arte perché gli atenei del Nord incassino più del doppio di quelli del Sud, succede questo e altro.

Per cui se l’Università della Calabria, che resta l’unica a vantare un primato mondiale nella logica deduttiva dell’intelligenza artificiale, riceve con buona pace di tutti 101 milioni di finanziamenti pubblici per la ricerca è certamente “equo” che l’università di Bologna ne incassi 412 e quella di Padova 318. Ovviamente sulla Calabria pesa anche il numero più elevato di studenti che, a causa del reddito, sono parzialmente esentati dal pagamento delle tasse universitarie e si deve, quindi, anche fare carico di una misura sociale (giusta) che è apparentemente nazionale ma di fatto diretta a colpire prevalentemente le università collocate in territori a basso reddito.

Mi viene da ridere quando penso ai chirurghi veneti mandati a insegnare le buone pratiche negli ospedali calabresi e che l’unica cosa che sono riusciti a fare è dire che loro, in quelle condizioni di ristrettezza assoluta di risorse e di personale, non avrebbero nemmeno operato. Siamo alla farsa! Valorizzare alcune parti delle università del Sud, le sue eccellenze che sopravvivono a dispetto di tutto e tutti, distinguere sempre all’interno di corpi grandi tra cose che funzionano, cose che non funzionano e cose che fanno pena indipendentemente da dove si trovino e dai santi in Paradiso, è oggi un’emergenza nazionale. Bisogna creare una autorità centrale stabile che scelga i migliori progetti e distribuisca le risorse settore per settore, come avviene in tutti i Paesi avanzati dove vincono i più bravi non i più raccomandati.

Serve l’agenzia nazionale della ricerca, e non si può continuare a essere terrorizzati dal pensiero che sia un nuovo carrozzone. Bisogna mettere alla testa uomini innovativi, esattamente come ha fatto la Spagna, non si può continuare con questa polemica da quattro soldi tra il poco che si prende la fisica teorica e la letteratura greca che resta fuori. Anche perché quello che ha avuto la fisica teorica probabilmente non basta. Con le briciole non si fa niente.


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