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L’ITALIA ha un primato europeo che misura alla perfezione il circolo vizioso infernale nel quale si è legata con le sue mani. La sua pubblica amministrazione ha debiti da onorare nei confronti dei fornitori per la rispettabile somma di 53 miliardi. Peggio di noi non c’è nessuno. Perfino in Grecia, secondo i dati Eurostat, va meglio: i mancati pagamenti incidono lì sul prodotto interno lordo per l’1,4%, da noi siamo al 2,9%, più del doppio. Ovviamente, con qualche eccezione, i “cattivi pagatori” sono gli enti locali del Mezzogiorno che mediamente maturano 11 giorni di ritardo in più rispetto alla media nazionale.

Come potrebbe essere diversamente se qui c’è la maggiore concentrazione di dissesti finanziari di enti locali? Come potrebbe essere diversamente se la principale causa di questi dissesti o pre-dissesti sono le difficoltà finanziarie, spesso, legate al mancato trasferimento di fondi da parte di altre amministrazioni, alla mancanza di risorse di cassa (leggi: soldi spendibili immediatamente) o all’accerchiamento da parte di enti appaltanti a loro volta in dissesto?

Come potrebbe essere diversamente se gli enti locali meridionali, almeno quelli più poveri, fanno i conti da almeno dieci anni con lo scippo permanente di risorse pubbliche prelevate alla fonte dai Comuni più ricchi attraverso il marchingegno della Spesa Storica che scava come un trapano nel bilancio pubblico grazie alla copertura della legge sul federalismo fiscale di Calderoli del 2009? Come potrebbe essere diversamente se tutti i successivi provvedimenti attuativi della medesima legge hanno soppresso i tradizionali trasferimenti erariali a comuni, province e città metropolitane? E li hanno sostituiti con risorse fiscali autonome, provenienti dai territori stessi, e con le risorse attinte dal Fondo perequativo, gravato a sua volta ancora da vincoli di legge? Nel primo caso il territorio povero non può produrre i gettiti richiesti. Nel secondo caso la solidarietà costituzionale è aggirata dalla famosissima Spesa Storica declinata in tutte le salse e per ogni genere di trasferimento pubblico con un solo criterio guida. Che è quello di fare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Domanda: quante sono le imprese meridionali che si indebitano o devono tagliare bruscamente gli investimenti perché non incassano ciò che è loro dovuto?

Quante di queste imprese, soprattutto meridionali, hanno dovuto affrontare senza colpe la traversata nel deserto dell’accesso al credito dove si riesce a far pagare ai piccoli imprenditori tassi anche dell’otto per cento nonostante la grande liquidità in circolazione? Si può chiedere per un giorno di non parlare di prescrizione, di sardine, di tesoretto e di ansie di visibilità, e di cominciare a occuparsi di cose serie? Quanto si deve ancora attendere per capire che siamo due Paesi in uno e che con la pubblica amministrazione e con il credito non si può continuare a fare finta che l’Italia sia unica? C’è un formalismo soprattutto nel negare l’accesso al credito a imprese sane che hanno un problema temporaneo, determinato magari da vicende ordinarie di malagiustizia o di sofferenza dei committenti pubblici, che mina alla radice il futuro dell’economia meridionale e, alla lunga, mette fuori gioco l’Italia. Possiamo anche continuare a fare finta di non capire, ma se non usciamo da questo circolo vizioso infernale ci condanniamo a diventare il problema dell’Europa. Per colpa nostra, gli altri non c’entrano.


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