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Mahmood, Amadeus e Blanco

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Perché Sanremo è Sanremo? Spente luci, tornati a casa artisti e compagnia cantante, mentre le radio rombano delle canzoni che abbiamo ascoltato in questi cinque giorni di musica e qualche sterile coda polemica lascia aperta la porta su ciò che è stato e non è già più, porsi questa domanda diviene necessità ineluttabile. D’altronde se qualche decina di milioni di italiani fa la stessa cosa, e la fa contemporaneamente, e la far ripetutamente, anno dopo anno, vuol dire che ci troviamo di fronte a qualcosa che non è un più solo un fenomeno di costume, che trascende il seppur immenso potere iconico di una tradizione.

Dunque, per rispondere alla nostra prima domanda, ce ne dobbiamo porre una seconda: cos’è Sanremo? L’unicità, caratterista fondamentale del Festival della Canzone Italiana, sfugge alle definizioni. Cioè che può essere definito può essere ricompreso in un sistema, in un insieme, in una categoria. Ma nel momento in cui ti concretizzi come qualcosa di unico e irripetibile, fai sistema e insieme a parte, ne sei l’unico aspetto e ogni aspetto. Come Sanremo, nessuno. Mai.

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Allora, se non possiamo dare una definizione, non resta che il metodo della similitudine. Sanremo è come una tavolata calabrese, familiare, per un pranzo di Natale. Partiamo da un presupposto: nel male e nel bene, tra mille errori, forti di una grande diseducazione al dialogo, questo paese cerca un linguaggio comune e un luogo, virtuale, in cui parlarlo.

Sanremo è questo: una tavola, immensa, attorno alla quale tutti ci sediamo (o alla quale rifiutiamo di sederci, riconoscendone in questo modo comunque l’esistenza e l’importanza) per parlare del più e del meno, delle cose importanti e delle sciocchezze, di cosa è cambiato in un anno e di cosa non cambia non mai, per scherzare e per dire le cose serie… anche per ricordare chi non c’è più e chi c’è ancora. Sanremo unisce e appassiona gli italiani, e permette loro di confrontarsi sui temi che il paese avverte di più, con uno stile totalmente italico, quello di prendere tutto troppo seriamente e al tempo stesso con superficialità.

“Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”: lo scriveva Mattia Torre e gli altri sceneggiatori della serie televisiva Boris. Ma è davvero ancora così? Forse sì. Ma se le canzonette sono quelle di Sanremo e se la “morte” non è solo un fenomeno fisico, ma è la morte del confronto, dei diritti sociali, o quanto meno delle discussioni ad esse legate, possiamo dire che Sanremo fa suo il suggerimento di Dargen d’Amico quando canta “Fottitene e balla”?.

Torniamo alla nostra tavola natalizia, con tutti parenti: il vino scalda i cuori, il cibo gratifica il corpo, i freni inibitori si allentano, e si inizia a discutere. Di cosa di parla? Di tutto. Dall’amica che ha scoperto che il figlio è gay, dalla moglie dell’estetista che è scappata con l’amica per iniziare una nuova relazione, o dell’amica di quell’amica che ha sposato un ragazzo di colore. Si ricordano i parenti che non ci sono più, si evocano le amicizie che finiscono, di quelle che sono più forti che mai. Si parla del reale.

A tavola siede lo zio simpatico, quello che ha problemi di alcool, ma al quale non riesci a non volere bene, la zia anziana e zitella che si veste come se avesse 19 anni. C’è il cugino strano, tutto tatuato, che fa il provocatore, quello che ad un certo punto si alza e va abbracciare la mamma. C’è tutta l’Italia seduta a quel tavolo, con le sue contraddizioni, i suoi perché, le sue circostanze, il proprio essere dinamica, rivoluzionare e tradizionale. Non troverete in nessun dove un’agorà più viva, alla fine della quale ognuno non farà altro che restare della propria opinione, per quanto influenzato dalle parole altrui.

Sanremo è la stessa, identica cosa. È uno specchio genuino della nostra realtà, non influenzato dallo show business, perché riuscire a fingere difronte ad un concentrato tale di emozioni è impossibile. Sanremo è Amadeus che si fa un profilo instagram condiviso con la moglie proprio come quel nostro caro amico. Sanremo è Grignani che arriva alterato sul palco, come lo zio che arriva brillo a tavola, che non riesci a non guardare con affetto. È Drusilla che si ricorda che non è tutto bilavante… o trivalente. È la Ferilli, che a un certo punto, ed un punto certo, ti dice che però con la pesantezza anche basta. È il ricordo della Carrà e di Battiato. È le canzoni che, proprio come la nostra società rappresentata nella nostra tavolata, parlano di cose serissime e di sciocchezze, esattamente con la stessa, serietà teatralità e passione.

Insomma, alla fine di tutto, Sanremo siamo noi. Tutti noi. Né più, né meno. E proprio per questo motivo, Sanremo è Sanremo, perché noi, noi italiani, siamo così… Santi, poeti e cantanti. O, in una sola parola, Sanremesi.

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