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di PANTALEONE SERGI
D’istinto pensai che quell’ammasso di polvere e detriti misto a fango e ferraglia fosse l’anteprima della fine del mondo. Era il tredici settembre di dieci anni fa quando misi piede a New York, fortuitamente primo tra i giornalisti italiani, a due giorni dall’attacco terroristico, con il cuore in subbuglio e l’adrenalina alle stelle. Neppure dal vicino Canada, dove mi trovavo al momento in cui i kamikaze del Corano puntarono gli aerei contro i simboli finanziari e militari del gendarme del mondo, era semplice perforare la blindatura di un paese che di colpo si era scoperto vulnerabile, nel mirino, minacciato in casa. Quando arrivai mi colpirono il senso di morte attorno a Downtown, luogo della tragedia, e le paure palpabili di Manhattan in preda alle convulsioni, di fronte e un’emergenza mai neppure immaginata e alla sindrome di un nuovo attacco possibile. In nessuna guerra s’era mai vista una mattanza così spettacolare e così «comunicativa». Tranne a Hiroshima e Nagasaki, ma era roba di oltre mezzo secolo prima, quando le notizie viaggiavano al rallentatore. Quelle storiche carneficine, tuttavia, erano state l’epilogo di una follia cosmica, non il risultato di un attentato terroristico programmato e attuato con lucida determinazione nel cuore della civiltà occidentale, in un tempo senza guerre dichiarate, nell’assoluta ignavia dei servizi di sicurezza. Ancora oggi quei due aerei assassini restano, per questo, conficcati nelle nostre menti e nelle nostre carni. Immagini vive e ancora dolorose.
Guardai, così, con una fitta al petto verso il ground zero, ricevendone di ritorno fotogrammi baluginati e sconvolgenti tra il pulviscolo che a mezzogiorno oscurava il sole, copriva tutto e rendeva l’aria crepuscolare e irrespirabile. Immagini che sapevano di morte, di amorale e gratuito delitto di massa di innocenti, nel quale è difficile trovare qualcosa di bello, a meno di avere menti obnubilate che si masturbano col fantasma dei propri fallimenti ideologici e umani o ricordando il sangue di vittime innocenti. Nessun ossimoro è possibile. C’era poco di bello quel giorno a Manhattan. C’era aria di lutto corale, di dolore. Downtown, la punta di Manhattan interessata al crollo, soccombeva sotto il peso della morte.
Dovevo vedere, però, dovevo raccontare. Una poliziotta visibilmente stanca che stava lì inchiodata da chi sa quante ore e tuttavia severa non ebbe però cedimenti. Oltre non si va mi fece capire a gesti inequivocabili. Ma forse, confesso, oltre non volevo neppure andare. I dettagli dell’orrore, alla resa dei conti, nulla avrebbero aggiunto al racconto del senso di vuoto che attanaglia al cospetto di una carneficina così. Ne avevo visti tanti di massacri e stragi nelle guerre di mafia della mia Calabria e nelle gesta truculente di un terrorismo rosso e nero che aveva insanguinato l’Italia. E avevo ancora freschi e nitidi i fotogrammi, delle fosse comuni di una guerra fratricida, della desertificazione e dei disastri dovuti e bombe più o meno deficienti nel Kosovo, ma quel quadro apocalittico mi apparve come «l’offesa immensa» all’umanità. Per cui guardavo annichilito, il taccuino in mano con il foglio bianco.
Accanto a me, con gli occhi puntati su quel cimitero a cielo aperto, c’era una ragazza con gli occhi umidi. Per quel che ho capito, però, le sue parole impastate di lacrime erano parole di speranza, tipo «l’America ce la farà». Non conosco il suo nome, neppure glielo ho chiesto. Ma pensando a lei penso a un’altra ragazza, Njomza Sina, fresca dei suoi quindici anni, gioiosa e speranzosa, che nel giugno di due anni prima avevo incontrato nel campo profughi italiano di Rrushbul 1, poco più a Sud di Durazzo, in Albania, durante la guerra etnica tra serbi e kosovari. Quella ragazza anonima di Manhattan aveva, mi è parso, la sua stessa ottimistica speranza, sebbene espressa in modo opposto. Come Njomza che, per «ritrovare la felicità», sperava di tornare presto a Giakova, o Djakovica, che fa lo stesso ma sa più di balcanico, città sulla strada tra Prizen e Pec che io vidi spettrale e sinistra con gli edifici sventrati e anneriti dalle bombe sganciate dagli aerei della Nato, la ragazza di Manhattan sapeva o sperava che quella non era la fine del mondo e contava di tornare presto a una vita più o meno normale.
Non c’è sprofondo, infatti, da cui non si può risalire in piano. C’è sempre un modo. Njomza, dunque, e l’anonima ragazza di Manhattan, rappresentano un simbolo della sostanziale continuità delle cose di questo mondo anche quando ci sembra che esso sia arrivato al capolinea. Pochi mesi dopo il nostro incontro, dopo il tempo sospeso passato nella tendopoli italiana e a guerra finita, Njomza era ad accogliere nel suo paese una star del calcio mondiale, quel Luis Nazario Lima, più noto come Ronaldo, sbarcato in Kosovo dalla pancia di un Ch47 dell’Aviazione italiana, con un pacco di dollari per la ricostruzione. Con la freschezza dei suoi anni Njomza gli chiese «perché sei venuto qui?». E il divo degli stadi spiegò che voleva aiutare il loro futuro. Perché un futuro c’era, nonostante tutto. Njomza ora ha 27 anni e sta su facebook (penso almeno che sia lei), e non so quali cicatrici porti di quella tragedia lontana. Né, figuriamoci, posso lontanamente immaginare storia e pensieri della sconosciuta newyorkese. Mi auguro che entrambe siano ora felici e che di quei giorni tragici abbiano soltanto flash back ovattati.
L’ho vista morta e risorta New York. Ci avevo messo due giorni per arrivare e il mio giornale, La Repubblica, voleva che vi arrivassi presto, al più presto possibile. Ero casualmente il giornalista più vicino trovandomi per lavoro nell’armoniosa Montreal dove, come tutti in tutto il mondo, in sincrono con l’evento mi raggiunsero le immagini della tragedia, le stesse che in queste sere accaldate la tv replica insistentemente come trailer della rievocazione di quel terribile giorno. New York e gli Usa erano off limits. I colleghi partiti con un aereo privato dall’Italia stavano bloccati, dopo peripezie, nell’aeroporto di Toronto. Cieli e strade erano vietati. Le frontiere chiuse. Solo un tassista di lingua e cognome siciliani, fu disponibile a bucare la barriera di Lacolle e dopo sei ore e passa immersi nel silenzio, superato il Bridge Tappan, a lasciarmi in un albergo di White Plains, periferia di New York, perché a Manhattan non si poteva ancora entrare. Ascoltai quella sera i primi commenti dalla gente del posto, frammisti a storie di violenze, di mafia e di affari dei nostri emigrati. Girai la prima notte per locali pubblici dove si beveva e si ballava, Entrai nel Caffè Aurora e in altri locali sulla Gramatan Avenue di Mount Vernon, due passi dal Bronx, luoghi d’incontro di tanti italiani emigrati ed italo-discendenti che si riuniscono e giocano a carte, e guardai con loro in tv l’ennesima replica delle scene del massacro. Jo Diaco, originario di Pietrapaola e ufficialmente pizzaiolo a White Plains, nel suo italiese mi sintetizzò i timori dell’America che piangeva la strage e intravedeva già un futuro di guerre, convinta che l’attacco non poteva rimanere impunito: «La guerra è cosa mala, cosa brutta, sempre brutta. Ma con questi qua, questi terroristi, ci vogliono le maniere forti», mi disse.
George W. Bush indicò il nemico e spronò i soldati a tenersi pronti per una guerra lunga e diversa, «combattuta attraverso le lacrime della nostra tristezza», «una guerra che vinceremo» assicurò. E alla catastrofe seguì una sorta di catastrofismo applicato al mutamento dei comportamenti umani da essa indotti. Nulla sarebbe stato più come prima, si disse, perché gli effetti a catena avrebbero sconvolto, e forse anche travolto e distrutto, il mondo intero. La paura, primo effetto che ha gracilizzato l’Occidente, si sostituì al dolore e in fondo era questo l’obiettivo dei fondamentalisti islamici: provocare incertezza sulla piega che avrebbe preso la storia da quel momento in poi. Nessuno da allora fu più tranquillo. Stazioni, autostrade, aeroporti, punti di imbarco, sono stati trasformati in chek point di una guerra invisibile alla quale ognuno di noi fu costretto a sacrificare, spesso anche volentieri, proprie libertà individuali pur di proseguire il proprio cammino senza temere che ogni «diverso» che avrebbe incontrato fosse portatore di una minaccia di morte. Se il gendarme del mondo, diciamo pure il paese da decenni più guerrafondaio e destabilizzatore della geopolitica in mezzo globo terracqueo, era stato attaccato in casa e il massacro aveva fatto crollare il suo mito d’onnipotenza, che ne sarebbe stato mai di paesi alleati, satelliti e vassalli? L’insicurezza subentrò alla convinzione granitica della propria forza, alle certezze finite, e perdute, fra le polvere e i detriti di quell’11 settembre 2001.
Quanto quei due aerei che si infilarono nelle Twin Towers come coltelli in un panetto di burro e quanto il bellicismo da cow boy texano del comandante supremo statunitense abbiano condizionato la storia del decennio che abbiamo alle spalle, è ancora difficile da stabilire. Il passato recente è storia liquefatta in politica, come avvertiva uno studioso alla caduta del fascismo. Ma a dieci anni dagli attentati terroristici, le riflessioni sono in qualche modo obbligatorie, perché bisognerà pur scriverlo, contribuire almeno a scriverlo, quest’ultimo capitolo di una storia ancora viva, storia presente e lacerante, quasi da esorcizzare per non restare in eterna apnea con la ragione. Al Qaeda, senza alcun dubbio, c’era e andava annientato (o andrebbe, visto che l’eliminazione di Bin Laden, se mai c’è stata, non ha risolto il problema). Il fondamentalismo islamico, come tutti i fondamentalismi, andava addomesticato e condotto a ragione. Contro i fantasmi talebani bisognava fare qualcosa perché l’Afghanistan con loro era ancora quel buco nero plurisecolare della storia mondiale. E quel Saddam, poi, era diventato pericoloso (per chi?) e così invadente ed era meglio toglierselo di torno, per ripristinare in quel paese ricco di storia e, soprattutto, di petrolio le regole della democrazia e anche, diciamolo sottovoce, degli interessi economici compromessi di tanti Stati occidentali, Usa in testa. Beh, che tutto questo po’ po’ di cose sia poi costato guerre e morti a cataste e abbia generato nuove e più acute insicurezze, è tutta un’altra faccenda. Il fatto vero è che dopo il massacro di Manhattan, lo «scontro di civiltà» apparve come l’elemento caratterizzante di quell’alba tragica del Terzo Millennio. L’odio globale celebrò, infatti, la propria vittoria ingigantendo a dismisura quello etnico e religioso che aveva caratterizzato conflitti drammatici ancora recenti e dolorosi, come la guerra del Kosovo nella quale toccò punte avanzate.
Il mondo cambiò per davvero? C’è stata quella nuova piega della Storia oppure il mondo è andato avanti sulla scia di sempre, e la Storia ha cambiato soltanto la location dei grandi eventi più che i motivi della loro messa in scena? Poveri coloro che leggono la realtà attraverso i giornali accontentandosi dei messaggi ricevuti. A dare retta alle notizie pubblicate negli ultimi dieci anni questo mondo non ci doveva essere più. L’esplosione di panico generò ansie in tutto il mondo. Lo stesso modello di convivenza tra varie etnie che aveva fatto del popolo degli immigrati il popolo degli Stati Uniti, ultima superpotenza rimasta al mondo, andò in frantumi. I primi piani di rappresaglia furono subito elaborati contro il nemico e i suoi protettori afghani. E venne il tempo della Grande instabilità mondiale. L’America va alla guerra ma non sa che guerra sarà, scrivevo dieci anni fa. Prima le truppe in Afghanistan che ancora sono lì, immolando vite anche italiane e bruciando miliardi, di dollari o di euro fa lo stesso. Poi il «grande condottiero» degli Usa s’inventò le armi chimiche di Saddam. L’Irak fu liberato da un dittatore sanguinario al prezzo di migliaia e migliaia di vittime su entrambi i fronti ma è ancora tutto un teatro di violenze. Nulla, insomma, è mutato. Si è allargato solo lo scenario del conflitto. Arabi e mondo occidentale si guardano in cagnesco attraverso mirini armati, Israele e Palestina appaiono ancora più distanti, la Siria è il nuovo fronte dell’intolleranza, vecchi conflitti continuano silenziati. L’Europa ha rimesso l’elmetto. Il mondo, dopo dieci anni, si presenta ancor più destabilizzato. Le uniche, sebbene sanguinose, «consolazioni» vengono dai paesi dell’Africa mediterranea, che stanno disarcionando beceri rais.
E allora è cambiato davvero il mondo se continuano come prima i conflitti e gli Usa, nonostante Obama e le speranze suscitate, continuano la loro politica imperialistica? Forse no. Anzi no. Il mondo non cambia mai. I conflitti in atto hanno radici antiche. Sarà cambiata, questo sì, la loro percezione, grazie anche all’ausilio dei media che, dopo l’11 settembre, hanno contribuito non poco alle esplosioni di panico di fronte a ogni allarme. Richiamo a proposito un eloquente saggio di Andrea Kerbaker, dal titolo «Bufale apocalittiche», su previsioni di eventi che avrebbero dovuto minacciare tutto il genere umano, con milioni di vittime. Apocalissi, strage, pandemie sono state parole che in questi anni hanno provocato ansie generali. S’iniziò (ricordate?) con il Millennium bug, il baco del millennio, che avrebbe dovuto causare, chissà poi perché, milioni di vittime perché il passaggio tra 1999 e 2000 avrebbe dovuto mandare in tilt tutti i computer del mondo. E poi, tra le catastrofi annunciate che si sono rivelate sonori bluff, si andò avanti con Mucca Pazza, Antrace, SARS, Aviaria, Influenza suina, H1N1 e altre epidemie minacciose per l’intero genere umano tutte regolarmente con le maiuscole, che si sono rivelati alla resa dei conti solo procurati allarmi. Per l’imprevisto, come l’abbattimento delle due torri, l’ansia e le paure sono solo subentrate e sono servite, a volte, a giustificare le violazioni della legalità internazionale.
Per Njomza Sina, però, la vita continua e sarà così per la sconosciuta di Manhattan, pur con un mondo in fibrillazione e forse anche per questo. Continuano pure i conflitti e i tentativi di pacificazione. Le più cupe previsioni sono state smentite. Dieci anni dopo possiamo registrare la sconfitta del signore dell’odio. Il mondo, insomma, continua a girare. Come sempre la Storia continua.
Pantaleone Sergi

La Terrasi presentadestabilizzataMa la storiacontinua
La paurasi sostituìal doloreL’obiettivodei terroristi
New Yorkcolpitapoi risortaSi risalesempre

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