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di VITTORIO DELL’UVA
Le prime immagini diffuse in diretta sembrarono da film disastro. Piombarono nelle case del mondo, lasciandolo più incredulo che atterrito di fronte alla tempesta di morte che si annunciava. Quello che stava accadendo era troppo persino per i fantasisti dell’orrore. New York aveva appena acceso i motori dell’ennesima giornata che si prevedeva, non meno di altre, convulsa; la burocrazia di Washington, più pigra, si era messa al lavoro seguendo ritmi adeguatamente pacati. Nessuno, nemmeno nei bureaux non sempre accessibili della sicurezza nazionale, poteva pensare che un nemico, in grado di tenere a lungo un profilo underground, stesse per portare, con pochi mezzi e con un pugno di uomini fattisi arma, un atto di guerra tanto micidiale e sanguinoso quanto poco convenzionale.
Il rombo dei motori di un jet che aveva preso a volare, assumendo un inspiegabile assetto diagonale ad una quota pericolosamente bassa sui tetti di Manhattan, annunciò d’improvviso un disastro imminente e chissà quante volte temuto, da quando le autostrade del cielo che conducono al Kennedy international airport corrono poco al di sopra di grattacieli orgoglio di molti architetti. Mancavano pochi minuti alle 9. Era l’undici settembre dell’anno 2001. Tra una preghiera e l’altra, a migliaia di chilometri di distanza, Osama bin Laden, uno dei disumani nani della politica che la Storia periodicamente produce, in grado di infiammare le masse , aveva deciso che, in tempo di pace, fosse giunto il momento di far vivere agli Stati Uniti una nuova Pearl Harbour, per mostrare quanto anche le grandi potenze possano essere fragili.
«World trade Center, codice 1076», fu l’annuncio diffuso via radio dalle centrali di polizia e vigili del fuoco alle 8,48 del mattino. L’allarme, decrittato, indicava che un violento incendio si era sviluppato in uno degli edifici alti 110 metri del WTO, frequentato ogni giorno da oltre cinquantamila persone. Pensare ad altro, fuori dalla logica degli incidenti, era quasi impossibile. La tremenda e diversa verità non avrebbe tardato ad emergere. Un aereo di linea dirottato «aveva penetrato come il burro» la parte intermedia di una delle due Torri gemelle, esplodendo al suo interno e minandone la struttura. New York era stata colpita al cuore dal terrorismo internazionale. Non una volta, ma due , si sarebbe scoperto qualche minuto più tardi, quando un altro aereo di linea, condotto da altri dirottatori di origine islamica, andava a schiantarsi contro la seconda delle Twin towers. L’agonia di uomini e donne in trappola e degli edifici non sarebbe durata che alcune decine di minuti per il collasso delle strutture in acciaio non del tutto spiegato dalle inchieste a catena. Alcuni vi si erano sottratti scegliendo, con salti nel vuoto, il suicidio. Verso la morte sarebbero corsi molti dei soccorritori. Alle 2752 vittime dell’attacco contro le Torri gemelle vanno aggiunti 343 “bravest”, i vigili del fuoco che provarono a salvare molte vite per quanto sapessero che l’impresa fosse nei fatti impossibile.
Ci sono tragedie che nonostante la loro dimensione vengono oscurate da altre. Accadde in quel giorno in America. Il World trade center si dissolveva tra le fiamme dietro una cortina di polvere e fumo mentre la sfida agli Stati Uniti veniva portata anche altrove. Il terrorismo di matrice islamica voleva colpire i simboli del potere oltre che quelli della potenza economica. In circostanze mai del tutto chiarite agli occhi dell’opinione pubblica cui, pur nell’era del “tutto in tv”, sono state negate immagini significative, un terzo aereo dirottato andava a schiantarsi su un’ala del Pentagono “dissolvendosi” con i suoi passeggeri nell’impatto, secondo la versione ufficiale. Altrove, nei cieli della Pennsylvania, il volo 93 della United Airlines diretto a Washington, caduto a sua volta nelle mani dei dirottatori, non sarebbe mai arrivato a destinazione. Nè avrebbe centrato l’obiettivo da distruggere. Rappresentava la “bomba” che Osama bin Laden aveva destinato alla Casa Bianca. Pur senza saperlo, passeggeri coraggiosi impedirono che il piano andasse in porto. L’aereo precipitò, schiantandosi sulle verdi colline di Stanksville dove un modesto memorial esalta il tentativo di quanti a bordo, insorgendo, si opposero alla violenza del dirottamento. Voci ricorrenti ripropongono ancora, di quel dramma, una diversa versione. Il volo 93 della United Airlines potrebbe essere stato abbattuto dai caccia A della Air Force quando si sospettò che avrebbe potuto raggiungere Washington e la residenza del presidente.
Non tutto fu chiaro in quelle ore convulse. E molto ancora, a distanza di dieci anni, resta da chiarire. L’undici settembre, l’America, e con lei il mondo, si scoprì molto più vulnerabile di quanto non pensava di essere. Le sue agenzie non l’avevano protetta dalle infiltrazioni, la Cia aveva mostrate falle inspiegabili. Persino le prime analisi dei servizi non si rivelavano corrette, indicando una pista da seguire di facile impatto, ma assolutamente inesistente, che conduceva alle frange palestinesi più intransigenti. Serviva a rimandare nel tempo spiegazioni destinate a creare, molto in alto, qualche imbarazzo. Il vero sospettato numero uno, il saudita di nobili origini, Osama Bin Laden, si era trasformato solo da qualche anno in nemico. Aveva avuto legami fruttuosi con gli Stati Uniti quando in Afghanistan c’era da combattere i russi; sulla via degli affari di famiglia nel settore delle costruzioni aveva incrociato l’entourage del presidente George W. Bush.
Nell’America che si era blindata dopo la strage chiudendo le proprie frontiere e fermando il traffico aereo, c’erano conti che non tornavano e che forse ancora non tornano. Nei giorni dell’emergenza nazionale, un varco verso l’Arabia Saudita imboccato da familiari di Bin Laden era stato lasciato aperto, mentre una pericolosa ventata nazionalista attraversava il Paese. Essere musulmani negli Stati Uniti non veniva, d’improvviso, considerata una colpa, ma collocava nel girone dei cittadini da frequentare con riserva, se non da guardare con sospetto. Il rapido varo del Patriot act, quasi una legge speciale, molto privava gli stranieri di qualche garanzia, rendendo particolarmente difficile la vita agli immigrati di origine asiatica o provenienti dal Medio Oriente, destinati spesso a trascorrere molte ore nelle stazioni di polizia o a subire sempre più severi controlli da parte dell’ufficio immigrazione. Più che serpeggiante, dopo lo choc, andava rivelandosi la voglia di vendetta, dando vigore al sempre vegeto partito della guerra.
Il mondo dei talebani dai turbanti neri che, sotto la guida di Osama bin Laden aveva portato la guerra agli Stati Uniti e indirettamente all’Occidente, determinando anche una crisi economica non ancora smaltita del tutto, osservava compiaciuto lo scenario, che si andava delineando, dalle montagne inespugnabili dell’Afghanistan. Pensava, e con qualche ragione, che oltre all’obiettivo militare anche quello politico era stato raggiunto. Quasi si divertiva con i suoi ambasciatori a sfidare il mondo. Questione di bacino di riferimento. Non a caso le dichiarazioni di innocenza provenienti da Kabul erano volutamente poco convincenti, contenendo una studiata dose di ambiguità per incassare i dividendi che il sospetto procurava nell’ambito delle masse musulmane. L’ostilità nei confronti degli Stati Uniti, che con l’11 settembre si era materializzata, aveva creato sgomento in gran parte del mondo, ma poteva anche accrescere il consenso per una causa ben più generale elaborata nel nome di Allah. Dopo tutto erano bastati diciannove uomini disposti al martirio e poche decine di migliaia di dollari per mettere in ginocchio il “grande Satana”, facendo avvertire condizioni di insicurezza mai provate prima.
Calcolo non del tutto sbagliato. Nei giorni in cui l’America, individuato il “colpevole certo”, ha cominciato a pianificare il rovesciamento della teocrazia di scarsa qualità insediatasi a Kabul e un tempo guardata con accondiscendenza, le strade di Islamabad e di molte capitali mediorientali, nord-Africa compreso, venivano attraversate da folle inneggianti a Bin Laden. Né sono mancati volontari accorsi a difendere il sacro suolo afghano dall’ineluttabile attacco degli “infedeli”. Nulla che non fosse previsto da Osama che, attraverso il mullah Omar, operava da “grande vecchio” dei talebani e che a misure precauzionali preventive aveva fatto ricorso nel delineare il suo progetto criminale, creando una ragnatela di complicità che avrebbe poi dovuto proteggerlo. Molto gli erano stati vicini – e probabilmente lo sono stati fino alla morte – gli ufficiali dell’ISI, i servizi segreti pachistani che per i “chierici” di Kabul e le loro scuole coraniche hanno sempre tenuto un occhio di riguardo. Forme di impunità, sfociate poi in protezione aperta venivano garantite nelle zone tribali di confine, da ambienti di Islamabad dalle connotazioni fortemente antiamericane. Nello stesso Afghanistan, tenuto sotto il tallone dell’oscurantismo religioso, erano state prese misure forti per mettere scompiglio nel campo della opposizione armata che provava da anni a rovesciare il regime, attraverso i vecchi signori della guerra tornati ad un ruolo attivo. Non è un caso se da prologo all’attacco alle Torri gemelle aveva fatto l’attentato mortale a Massoud, il leone d Panshir, considerato il più adatto tra i comandanti militari afghani a condurre un attacco contro le roccaforti del potere talebano.
Quanto l’ondata della destabilizzazione prodotta da Osama Bin Laden con l’11 settembre sia stata lunga lo dicono i fatti. Molte delle sicurezze occidentali, in economia come in altri campi, sono andate smarrite. Al suo atto di guerra ha corrisposto un conflitto che ormai sta per entrare nell’undicesimo anno e che, sempre all’America, oltre che ad altri , è costato altre vite. Il primo maggio il presidente Obama ha potuto annunciare che la testa del drago era stata tagliata con un blitz, non lontano da Islamabad, dove si nascondeva in un compound abitato da molti militari. Ma che, sepolto Osama bin Laden, il livello delle inquietudini del mondo si sia davvero abbassato è un dato ancora da verificare.

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