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SCRIVENDO di Lavello, mio paese natale, gli appunti diventano  inevitabilmente quelli di un viaggio nella memoria, e i luoghi che descrivo teatro di scene vissute lontano nel tempo. La casa del diavolo, importante rudere di villa-fattoria romana con terme ancora ben tracciate, mi rimanda ai volti rugosi dei contadini che così la chiamavano perché nei rossi tramonti l’ultimo sole inondava il rudere e ne usciva da porta e finestre sul davanti: l’effetto era ed è quello di occhi e bocca di brace del demonio. E tutte le volte che torno a Santa Maria ad Martyres (del 1400),una delle due chiesette di un complesso conventuale consacrato da Papa Niccolò II nel 1059,la valle si anima di volti, voci e suoni del passato a me molto cari. E riodo la campanella ormai scomparsa, quella che suonavo dopo essermi arrampicato sul tetto, mentre la processione dei fedeli giunti da contrade e paesi dei dintorni si snodava nel bosco ricco di limpide acque, facendo il giro intorno al vecchio pozzo ed alla monumentale fontana dei monaci. E il paese, di 14000 abitanti, affacciato sulla piana della Puglia a 300 metri di altezza, è ricco di monumenti fra cui il castello-municipio, la chiesa madre di San Mauro Martire,la chiesa di Sant’Anna,quella di Sant’Antonio una volta convento ed ospedale.

 Ogni sua strada dei quartieri moderni ed ogni vicoletto del centro storico medioevale mi riporta alle antiche usanze de “i morti”,di Natale e di  carnevale. Altro che Hallowen…le zucche svuotate con la candela accesa la mettevano già noi bambini sui davanzali,e i bisognosi andavano casa per casa a bussare intonando la cantilena “damm i murt”( altro che dolcetto o scherzetto).Il padrone di casa non faceva mancare il proprio dono,dolci tipici, un pezzo di formaggio,della salsiccia, una ciotola con il classico “gran cutt”: il nostro piatto tipico del periodo dei morti,risalente certamente al periodo dei Saraceni,era ed è grano cotto condito con vincotto,noci e chicchi di melograno. E la grande piazza Matteotti, monumento dell’epoca fascista con le tre ali dell’edificio scolastico,era contenitore di folle per le grandi occasioni,nonché centro di raccolta dei mietitori pugliesi che qui si accampavano in attesa di essere ingaggiati per la raccolta delle messi. In quell’edificio andavo a scuola,dopo aver percorso quel pezzetto di strada che lo separava da casa dei miei nonni,z’ Vtantonio “Pasciacchidd” e zè Prnzepia” la Baruness”.In una mano la borsa di cartone pressato per libri e quaderni e nell’altra,nelle rigide giornate invernali, il manico di fil di ferro del grande “buatt” pieno di brace. Poggiato sulla pedana di legno del banco,dava calore a tanti di noi che vi si stringevano intorno,incuranti del fatto che così facendo alimentavamo il fastidioso dolore dei “geloni”.

Studiavamo la storia nazionale, la stessa che potevano studiare a Bolzano,e poco sapevamo delle nostre origini, dell’antica Forentum,del nome attuale che forse deriva dal latino “labellum”(abbeveratoio),della Torre Ardente,della storia dei rioni Pescarello e Casale,delle tantissime aree archeologiche disseminate nelle campagne ed in città. Poi,col tempo,ti assale struggente la voglia di sapere,quasi di conoscere fisicamente quelli che prima hanno calpestato queste terre,quelli dei quali si scoprono resti per secoli sepolti: i Dauni, i Romani,i Longobardi,i Bizantini che ci hanno lasciato bellissimi affreschi,e i Normanni,e Federico II,e suo figlio Corrado IV,morto qui”apud Fenuclarum”,e i tanti che hanno dominato il nostro popolo. Di sapere di tutti quelli che prima di te hanno bevuto le stesse acque sorgive, che hanno goduto degli stessi paesaggi. Paesaggi che l’ingordigia e la stupidità dei nostri tempi stanno rubando ai nostri discendenti.

*Presidente sezione Vulture Alto Bradano di Italia Nostra

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