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PER provare a capire la Basilicata di oggi, come approdo di un lungo periodo storico,  forse può essere utile ricorrere alla teoria di Riccardo Illy della rana bollita e di quella scottata, secondo la quale si hanno due rane messe in pentole diverse. La prima rana in una pentola d’acqua messa a riscaldare a fuoco lento, la seconda in una pentola di acqua bollente. La prima rana, abituatasi al cambiamento graduale della temperatura dell’acqua, muore, la seconda, appena messa a contatto con l’acqua già bollente  fa un salto e schizza fuori della pentola. Morale della favola: uno choc consente una capacità di reazione, una lenta deriva dà assuefazione, assopimento, incapacità di avvertire il pericolo e di conseguenza di correre ai ripari. La prima rana rappresenta metaforicamente la Basilicata di ieri e di oggi.       

 Non c’è la percezione della gravità della crisi che risale a partire dagli anni ‘70 soprattutto nella classe dirigente, con in prima fila il ceto politico, specializzato in “tuttoappostismo”, incapace di vedere  e sentire i tanti macigni economici e sociali  che gravano sulla comunità regionale, determinandone il declino.

Eppure i fatti sono incontrovertibili: la popolazione regionale è passata dai 640 mila abitanti del 1970 ai circa 570 mila di oggi. Se si proseguirà su questa scia avremo una ulteriore perdita di almeno 50 mila persone entro il 2030; la regione si sta spopolando in maniera drammatica, nelle zone interne in particolare; reggono la città di Potenza per motivi burocratici ed il melfese per un intervento esterno (la fiat), causato da logiche imprenditoriali che hanno poco a che vedere con la Basilicata; il reddito regionale è frutto di un sistema produttivo quantitativamente e qualitativamente insufficiente e di una spesa pubblica di grande consistenza assoluta e relativa; i 2/3 della società lucana vive in condizioni a dir poco precarie, con al suo interno larghi strati di povertà e così via.

Senza la Fiat, i fondi della ricostruzione post terremoto e l’enorme spesa pubblica fin qui avuti, ossia tre interventi esterni alla regione, oggi saremmo letteralmente in ginocchio: la Basilicata sarebbe grosso modo un deserto.

Le cause del sottosviluppo sono note e fanno parte della copiosa letteratura economica sul Mezzogiorno: attengono senza dubbio a responsabilità e soggetti nazionali, riguardanti la politica, la grande impresa, i sindacati, i luoghi terzi (scuola, università, chiesa cattolica, ecc.), ma anche a forze interne alla regione e sono da attribuire prevalentemente alla sua classe dirigente, impegnata a creare, difficile dire se solo per colpa o anche per dolo, un contesto istituzionale ed operativo non certo ottimale per consentire il pieno impiego delle potenzialità socio-economiche presenti nella regione.

La classe politica si è blindata nelle istituzioni ed ha distribuito la spesa pubblica, inseguendo il consenso elettorale in un’ottica di breve periodo, puntando alla propria sopravvivenza.

È a ben vedere questo il maggior costo che la politica ci impone: sopportare istituzioni “estrattive”, per dirla con lo storico dell’economia, Emanuele Felice, finalizzate ad “estrarre”, dalla ricchezza comunque disponibile, rendite per una minoranza di privilegiati. Gli altri sono liberi di andarsene o mettersi in fila per ottenere qualcosa, dando in cambio consenso politico ed all’occorrenza elettorale.

È così da tempo immemore. La manovra finanziaria licenziata dalla giunta Pittella, per restare nell’attualità, segue pedissequamente l’impostazione accennata in precedenza e attuata dai precedenti governi regionali. Disponiamo della solita distribuzione a pioggia dei fondi, nessun volo d’ala nei suoi riferimenti organizzativi e strumentali (guai a parlare di piano di assetto del territorio, di corrispondente piano di sviluppo economico), avendo come sottofondo l’agenda Basilicata 2012, spostata al 2020, replicando strutture organizzative (cabine di regia varie) e riti concertativi fuori moda quanto inutili (ah! se lo sapesse Renzi), mettendo d’accordo l’intera classe dirigente, con particolare giubilo dei sindacati.

Non è un caso che l’utilizzo delle royalties confermi quanto fatto in passato, finanziando il programma Copes, la forestazione improduttiva, la Sanità, perpetuando l’imbroglio dei suoi conti in ordine e l’Università.

Così stando le cose, è di tutta evidenza che i proclami rivoluzionari che hanno caratterizzato le recenti tornate elettorale erano aria fritta.

In questi giorni va registrato un certo fervore di attività da parte di movimenti non direttamente coinvolti nell’agone politico (azione cattolica, l’Inu, centri studi come la Svimez). 

«Non tirarsi indietro in questo particolare momento storico in cui tutto sembra non favorire i nostri territori» ha detto, giorni fa, Fausto Santangelo, delegato regionale dell’Azione cattolica.

L’Inu in un suo documento insiste sulla necessità di dotare la regione finalmente di un piano territoriale che fissi la Basilicata dei prossimi 20 anni.

La Svimez invita a avere visioni programmatiche di largo respiro.

Vanno considerate rondini che non fanno primavera? Mah! Difficile dirlo. Certo è singolare la proposta del governatore lucano di mettere in piedi una cabina di regia (lo strumento imperversa ormai ad ogni pie’ sospinto) tra le regioni del Mezzogiorno continentale per programmarne lo sviluppo, quando non riesce  a fare uno straccio di ipotesi per la Basilicata che sarebbe il requisito minimo per presentarsi ad un tavolo del genere. Ma tant’è.

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