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LA sofferenza, la speranza di avere giustizia, la forza di volontà: è questo che li accomunano e lo esprimono bene i loro volti. Sono figli, genitori, mogli, parenti di magistrati, poliziotti, imprenditori, tutte vittime della mafia. Arrivati a Potenza da varie parti d’Italia, soprattutto del Sud, ognuno con la propria storia. Hanno portato con sè i propri figli, nonostante la pioggia battente, per dimostrare che credere nel cambiamento è possibile. Chiedono verità e giustizia e per ottenerla hanno saputo trasformare la loro sofferenza in impegno e partecipazione. «Libera ci ha presi per mano», ripetono in molti, ma è ancora più significativa “l’etichetta” che recita: “Libera è la nostra fiammella accesa”. E che dà calore lì dove a volte, o forse spesso, neanche le istituzioni arrivano a colmare il vuoto di una giustizia ottenuta solo a metà o di una verità negata. Ed è per questo che ieri insieme ai familiari delle vittime di mafia c’erano anche le 16 famiglie lucane per le quali la scomparsa dei propri cari è ancora un mistero. Tra tutte la mamma di Elisa Claps, chiusa in un cappotto che pur coprendole il corpo minuto, non riesce a trattenere tutta la forza che sa sprigionare. I suoi occhi brillano quando dice: «Sono contenta. Questa giornata è anche per Elisa e oggi Potenza ha la possibilità di riscattarsi. Sento il calore della gente che insieme a noi sta chiedendo finalmente luce». Poco lontano c’è anche il vescovo di Potenza, Agostino Superbo. «Non ce l’ho con la Chiesa in quanto istituzione – dice ancora Filomena Iemma – ma con chi per tutto questo tempo ha fatto in modo che la fine di Elisa rimanesse un mistero. Da oggi speriamo che Potenza si risvegli con una coscienza nuova». Chiusi nell’abbraccio degli scouts sfilano in silenzio i familiari delle vittime delle mafie: sul petto le foto dei loro cari. Nel cuore storie incredibili, violente, spesso di vite sacrificate per caso. Come quella di Dario Scherillo, 26 anni, ucciso a Secondigliano per uno scambio di persona, a dicembre del 2004. «La mia vita – racconta la mamma – da allora è completamente stravolta. Nel mio cuore porto solo mio figlio e nulla potrà ridarmelo. Ho avuto la gioia di avere dei nipotini, ma loro non mi danno soddisfazione. Vorrei essere felice, ma non lo sarò mai più». Ci sono poi le storie di chi ha detto “no” e ha pagato con la vita questo coraggio. Gianluca Congiusta fu ucciso nel maggio del 2005: cercavano di estorcere soldi al suocero e lui si è opposto. Il padre e la sorella indossano dei guanti bianchi con una scritta in rosso che recita “il nostro dolore è fine pena mai”. O anche quella di chi non ha ceduto alle richieste di pizzo. Come Raffaele Granata, morto a Varcaturo nel 2008. «Mio padre – dice il figlio Giovanni – continua a esserci nella nostra vita quotidiana. Rassegnarsi non è facile, perchè lo abbiamo perso nonostante non facesse un lavoro rischioso. Io e i miei due fratelli, che vivono sotto scorta, abbiamo continuato a dire di no alle estorsioni per i nostri stabilimenti balneari. Sapete che cosa è successo? Che avevo 80 dipendenti e me ne ritrovo solo cinque, perchè la gente ha paura. E addirittura il giorno del funerale di mio padre la cosa che più ci ha sconvolto è che i titolari degli altri stabilimenti non hanno chiuso in segno di lutto. Cambiare è possibile? Lo spero, ma non ne sono certo». E luce non è stata sicuramente fatta sulle assurde morti di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, due poliziotti uccisi dalla mafia e sulla cui storia il padre del primo si è sentito opporre il silenzio del “segreto di stato”. L’emblema della sua protesta è la lunghissima barba bianca che ha deciso di non tagliare più fino a quando non sarà fatta piena luce sul caso. Non ci sono più segreti, invece, ma non è stata fatta piena giustizia sulle morti di Domenico Gabriele, ucciso a Crotone il 25 giugno del 2009, e di Gaetano Marchitelli, morto a Bari a ottobre del 2003. «Mio figlio – dice il padre del primo – è stato vittima di un agguato di mafia che aveva come obiettivo altri. Era in un campo di calcetto e stava guardando una partita. E’ morto dopo due mesi di coma». «Gaetano consegnava le pizze a domicilio – dice l’altro genitore – Era seduto sul suo motorino, quando è stato colpito da un proiettile vagante, nel corso di una sparatoria tra bande rivali. A distanza di otto anni stiamo ancora lottando per far diventare la giustizia più giusta, perché gli autori sono stati prima condannati e poi rimessi in libertà o hanno beneficiato di una riduzione della pena». Il nome di Emanuela Lioi e la sua foto in divisa, con un sorriso smagliante, di soddisfazione per un lavoro duro e all’epoca insolito per una donna, fare la scorta a un magistrato, è ben noto: è uno degli angeli di Borsellino, uccisi nell’attentato di via D’Amelio. Sua sorella e suo cognato ricordano quella tragica giornata: «Quella telefonata fatta da lontano e la prima avvisaglia della tragedia: forse in quell’agguato è rimasta coinvolta anche lei. Tante verità ci sono ancora nascoste. Finora ne abbiamo conosciute solo una piccola parte. Siamo qui per sfogarci, perché il nostro urlo di dolore divenga urlo di giustizia». Quella che attende anche Maria Grazia Laganà, vedova Fortugno: «Mercoledì ci sarà una sentenza definitiva per l’omicidio di mio marito. Oggi non potevamo non esserci». E come questa tante altre storie, più o meno note, tutte strazianti. Voci e volti unite dalla stessa ansia di verità e giustizia.

Alfonso Pecoraro

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