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di ANTONIO ANASTASI
PETILIA POLICASTRO – Strangolata con una corda di quelle che servono per chiudere le tende. Così è stata uccisa Lea Garofalo e l’arma del delitto è stata rinvenuta grazie alle rivelazioni del pentito, Carmine Venturino, il 22enne ex fidanzato di Denise, la figlia della testimone di giustizia uccisa, bruciata e sepolta in un campo vicino Monza. Il 3 ottobre scorso Venturino, che un anno fa, insieme ad altre cinque persone tra cui Carlo Cosco, ex convivente di Lea e padre di Denise, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio, già collaborava con la giustizia. Ecco cosa disse agli inquirenti milanesi, come emerge dagli atti depositati dalla Procura generale del capoluogo lombardo in vista del processo d’Appello che inizierà il prossimo 9 aprile. «Abbiamo spostato il corpo da sotto il divano e l’abbiamo girato. Il viso di Lea aveva dei grossi lividi e c’era sangue intorno alla bocca, al naso e intorno al collo. Ricordo che aveva la parte intorno al collo e alla bocca schiacciata, come se avesse preso dei grossi colpi. Era stata strangolata, infatti intorno al collo aveva ancora una corda di colore verde che io riconobbi perché era a casa mia, in via Fioravanti, e serviva per chiudere le tende». I carabinieri fecero un sopralluogo e trovarono la corda nell’appartamento di via Fioravanti, una parte della quale sarebbe stata tagliata e utilizzata per strangolare la donna. In effetti, il meccanismo di chiusura della tenda era proprio un cordino verde che, a differenza di quello di una tenda gemella collocata in un’altra stanza, sembrava essere stato tagliato e riannodato. Quel che rimase di un pezzo di cordino Venturino lo bruciò in un posacenere davanti a un certo Massimo Floreale (nipote della proprietaria dell’appartamento), che non gli fece domande. Lea Garofalo fu uccisa a Milano, dunque. Era il 24 novembre 2009. Venturino indica gli esecutori materiali in Carlo e Vito Cosco che «si incontrò con Lea sotto l’Arco della pace e la portò con una scusa
in un appartamento dove attendeva Vito Cosco». Fu Carlo a strangolare la donna «con un filo tagliato dalle tende del mio appartamento di via Fioravanti dove vivevo con lui». Venturino era a conoscenza del progetto di morte, essendo stato incaricato di prelevare il cadavere insieme a Rosario Curcio. Aveva, infatti, il doppione delle chiavi di casa. Quando arrivò sul luogo del delitto i fratelli Cosco non c’erano. «Io e Curcio – racconta il pentito – abbiamo portato il cadavere prima presso il box di Floreale e la mattina successiva Vito Cosco e Curcio l’hanno portato  nel terreno di Gaetano Crivaro. Qui, già dal 25, è iniziata la distruzione del cadavere che non è stato sciolto nell’acido ma carbonizzato». Secondo Venturino sono estranei al delitto Sabatino Massimo e Giuseppe Cosco, anche se quest’ultimo era consapevole del progetto. 
Dal sopralluogo spuntò anche il bidone in ferro nel quale fu messo il corpo poi bruciato. Venturino lo ha riconosciuto ma non fu rinvenuto nell’area oggetto della perquisizione in quanto fu recuperato da una ditta, la Generalrottami snc, che si occupa di materiali da riciclare. Il divano che si trovava nell’abitazione della nonna di Floreale non è stato rinvenuto. Secondo Venturino si era talmente macchiato di sangue durante le fasi dell’omicidio da indurre lui e lo stesso Floreale a gettarlo ma quando i carabinieri sono accorsi nell’area indicata non hanno trovato nulla. Il cadavere, messo in uno scatolone, fu spostato nel magazzino di Gaetano Crivaro, il cutrese condannato per favoreggiamento a due anni nel novembre scorso (i sei ritenuti colpevoli dell’omicidio sono tutti di Petilia, invece, tranne Sabatino, salernitano). Nel magazzino dell’orrore, vicino Monza, avvenne la distruzione del corpo senza vita. «Abbiamo preso il cadavere aprendo da un lato lo scatolone ed abbiamo messo il cadavere dentro il fusto, spingendo il corpo in modo che non uscisse. Lo abbiamo messo a testa in giù, a livello del bordo superiore si vedevano le scarpe. Nel fusto abbiamo messo anche la borsa che aveva la Garofalo. Il cartone lo abbiamo bruciato nello stesso fusto. Abbiamo versato parte della benzina sul cadavere e abbiamo dato fuoco».
Così si cancellano dalla memoria collettiva gli “infami”, coloro che, nel gergo ‘ndranghetistico – anche se agli imputati non è stata contestata alcuna aggravante mafiosa – collaborano con la giustizia, come aveva fatto Lea che aveva fatto dichiarazioni su un omicidio, quello di Antonio Comberiati, commesso a Milano nel ’95, incolpando Carlo Cosco e suo fratello Giuseppe, tra i condannati all’ergastolo. Il cadavere «non bruciava bene forse perché non c’era abbastanza aria nel fusto e allora ricordo che col piccone ho fatto diversi fori nel fusto». Ecco perché Venturino ha rinosciuto il bidone. «Il fusto di cui sto parlando ha dei buchi che gli avevo fatto col piccone». Fu un’attività lunga, dalla mattina al pomeriggio del 25 novembre 2009. Ma Venturino e Rosario Curcio operarono «a mani nude» mentre Vito Cosco portò dei guanti.
Poi i killer andarono via. Il corpo era ormai carbonizzato. «Si vedevano soltanto le braci». Venturino ricorda che erano rimaste le ossa del bacino, «rosse dal calore». «E allora noi le abbiamo frantumate con una pala». E iniziò una pioggia leggera. Che non è riuscita a cancellare tutto. I resti bruciati furono gettati in una fossa. Venturino e Vito Cosco tornarono il 27 novembre nel magazzino proprio con lo scopo di eliminare ogni traccia della carbonizzazione del corpo. «Ricordo che con un rastrello e uno scopone abbiamo pulito nel punto dove avevamo messo le pedane di legno e il cadavere quando lo avevamo bruciato, quanto era rimasto lo avevamo raccolto con la pala e l’avevamo messo nella carriola, buttando il tutto nella fossa a sinistra del magazzino: non era rimasto nulla, non c’erano pezzi di ossa ma solo terra e legna bruciata». Le modalità agghiaccianti del delitto  prevedevano anche il lavaggio del piazzale di cemento di fronte a un container dove era stato gettato quanto era rimasto nel timbino. Fu lavato anche il fusto. «Lo abbiamo lasciato lì, capovolto a testa in giù».

PETILIA POLICASTRO – Strangolata con una corda di quelle che servono per chiudere le tende. Così è stata uccisa Lea Garofalo e l’arma del delitto è stata rinvenuta grazie alle rivelazioni del pentito, Carmine Venturino, il 22enne ex fidanzato di Denise, la figlia della testimone di giustizia uccisa, bruciata e sepolta in un campo vicino Monza. Il 3 ottobre scorso Venturino, che un anno fa, insieme ad altre 5 persone tra cui Carlo Cosco, ex convivente di Lea e padre di Denise, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio, già collaborava con la giustizia. Ecco cosa disse agli inquirenti milanesi, come emerge dagli atti depositati dalla Procura generale del capoluogo lombardo in vista del processo d’Appello che inizierà il prossimo 9 aprile. «Abbiamo spostato il corpo da sotto il divano e l’abbiamo girato. Il viso di Lea aveva dei grossi lividi e c’era sangue intorno alla bocca, al naso e intorno al collo. Ricordo che aveva la parte intorno al collo e alla bocca schiacciata, come se avesse preso dei grossi colpi. Era stata strangolata, infatti intorno al collo aveva ancora una corda di colore verde che io riconobbi perché era a casa mia, in via Fioravanti, e serviva per chiudere le tende». I carabinieri fecero un sopralluogo e trovarono la corda nell’appartamento di via Fioravanti, una parte della quale sarebbe stata tagliata e utilizzata per strangolare la donna. In effetti, il meccanismo di chiusura della tenda era proprio un cordino verde che, a differenza di quello di una tenda gemella collocata in un’altra stanza, sembrava essere stato tagliato e riannodato.Lea Garofalo fu uccisa a Milano, dunque. Era il 24 novembre 2009. 

 

 

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