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di ANNA FOTI *

Anche in Calabria, e per certi versi soprattutto in Calabria, si consumano storie singolari di donne comuni: madri che difendono i figli, persone che lottano per la loro libertà e per la giustizia, che ostinatamente non rinunciano ad un futuro di riscatto. Tutto ciò è segno di un tempo carico di sofferenze e di contraddizioni che, non caso, da rosa, troppo spesso, diventa rosso sangue.
Appare così ineluttabile il destino di chi matura la difficile scelta di rompere gli argini, di ribellarsi ad un cielo di cui si fa parte ma dal quale si è stati arbitrariamente esclusi. Come una mina vagante è colei che pone disordine dove regna ordine da altri stabilito. Se, infatti, è una donna a volere scrivere il proprio destino, madre di figli per i quali si trova la forza di scardinare per ricostruire e ricominciare per poi essere vulnerabili e soggette a pressioni, allora questa scelta è ancora più difficile ed è causa ancora più dolore.
Ed è allora che per alcune donne l’acido ha iniziato a logorare, prima l’animo del corpo. Ha logorato e consumato dentro, prima di agire fuori e uccidere.
Donne suicidatesi, esasperate e disperate, questa la cronaca ma la loro storia è in realtà molto più profonda e complessa.
Donne tradite, lasciate sole, che si sentono sole, che non hanno intravisto alcuna via di uscita, cui non è stata lasciata aperta alcuna porta verso la luce. Donne capaci, prima del coraggio di spezzare le catene di un’oppressione, della ndrangheta e di credere nello Stato, e poi di un gesto disperato, forse suscitato.
Donne che hanno compiuto la coraggiosa scelta di cambiare il proprio destino asfissiante, avvinghiato al malaffare, all’omertà e alla violenza, per scegliere la verità, la luce, la libertà di donne e di madri di figli con il preciso intento di creare per gli stessi un avvenire degno di questo nome.
Un coraggio che nasce e muore giovane.
E’ la storia di Maria Concetta Cacciola, 31 anni di Rosarno nel reggino, cugina della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, anche lei madre combattuta, pentita di ndrangheta, la prima di un clan potente come quello dei Pesce di Rosarno.
Ma è anche la storia di Tita Buccafusca, 38 anni di Vibo Valentia.
L’acido ha corroso anche il corpo di Lea Garofalo, crotonese ma uccisa nel milanese, madre di Denise. Tutte donne che hanno scelto la libertà dalla ndrangheta, la libertà di essere madri e quindi di credere nella giustizia, di scegliere un altro destino, di rischiare tutto ma per la difesa dei figli piuttosto che per l’appartenenza alla famiglia di ndrangheta.
Un filo drammatico lega queste storie di ribellione alla ndrangheta, necessaria, essenziale e imprescindibile, a quella di donne migranti che lasciano il paese di origine per garantire ai propri figli anche solo la minima possibilità di un futuro.
Molte di queste donne arrivano anche in Calabria. Altre sono in fuga da un destino scritto da altri con l’inchiostro del sangue, della discriminazione e di prevaricazione. La storia di ribellione di una donna, anche lei giovane, 34 anni e proveniente dalla Nigeria, che con il suo ostinato ‘no’ nel suo paese ha spezzato le catene di una tradizione iniqua e fortemente lesiva della sua dignità, dei suoi diritti, come di quelli delle altre donne nigeriane e non solo.
Ancora una volta si ripiomba nell’orrore dell’acido, questa volta non ingerito o utilizzato per sciogliere il corpo e uccidere, ma per sfregiare il volto come segno disobbedienza alle leggi islamiche. Vittime dell’acido muriatico le donne straniere nel loro paese ma anche in Italia dove, però, questo gesto aberrante, dettato da tradizioni disumane e da una brutale forma di giustizia privata, è reato.
C’è la storia di Hasna, la giovane marocchina diciannovenne che a Torino nel 2010 fu sfregiata da un connazionale che aveva respinto e che di recente è stato condannato a sei anni di reclusione. Poi c’è la storia di Kate Omoregde che ha rischiato di essere sfregiata, sfigurata e uccisa a pietrate per non avere rinunciato alla sua fede Cristiana in favore di quella Musulmana in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa con 250 gruppi etnici dove la violenza sulle donne è diffusa e una condanna attendeva di essere eseguita nei suoi confronti. Nel suo paese, infatti, è stata condannata per avere detto no ad un matrimonio combinato in una società integralista in cui la sottomissione imposta dal padre – marito – padrone rappresenta l’unica condizione femminile esistente. Kate, detenuta presso il carcere di Castrovillari nel cosentino e rilasciata per buona condotta nel settembre nel 2011, ha rischiato di essere rimpatriata verso un paese dove sostanzialmente avrebbe rischiato la vita.
La speranza di Kate di rimanere in Italia in realtà è stata una battaglia di civiltà di ciascuno, dunque di entrambe le parti di un cielo che spesso si mostra plumbeo perchè incompleto ed incompiuto, perchè stravolto da logiche di sopraffazione e superiorità tra i generi.
Lo stesso impegno comune di Istituzioni e Cittadinanza è quello necessario per Giuseppina, come per tutte le altre donne che tradiscono l’omertà della ndrangheta e spezzano le catene dei pregiudizi. Una battaglia corale come avrebbe dovuto essere quella per salvare Tita, Maria Concetta e Lea.
Ma per queste donne l’abbiamo persa, forse, certamente colpevolmente, ancora prima di combatterla.
* giornalista

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