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Siamo oramai nel pieno della fase due e pare che la situazione stia tornando progressivamente a normalizzarsi; ristoranti, bar, da poco anche cinema e teatri, hanno già riaperto ed in questa fase tra gli italiani c’è addirittura chi pensa alle vacanze. Dal 15 giugno sono ripartite finanche le competizioni sportive (sebbene con le dovute limitazioni) così come sale giochi, scommesse e bingo sono state rese nuovamente accessibili. In questo scenario non si può non notare che, nonostante la ripresa di pressappoco tutte le attività produttive, non vi siano certezze sulla riapertura delle sedi universitarie, nelle quali continua la sospensione delle attività didattiche in presenza. Per quanto riguarda scuole primarie e secondarie, il Miur ha indicato come data di riapertura indicativa il prossimo 14 settembre, mentre in merito alla formazione terziaria vige ancora uno stato di profonda incertezza.

Il forte ritardo sulla ripresa delle attività universitarie restituisce l’immagine di un paese che svaluta la formazione universitaria, collocandola in una posizione marginale e non urgente rispetto alla ripartenza. La pandemia ha mostrato lo scarso peso dato all’istruzione nella scala delle priorità, da parte di un sistema statale che preferisce implementare il campo del consumo immediato. I settori considerati essenziali sono stati, anche in seguito alla fase maggiormente critica, quello sanitario, agroalimentare ed industriale. Si trattava, del resto, di un momento particolarmente delicato, in cui non era neppure irragionevole supporre che la precedenza fosse data alle attività che potessero consentire una migliore ripresa economica in una situazione di crisi.

Tuttavia, ci troviamo ora in uno scenario sociale paradossale, in cui la riapertura delle discoteche viene anteposta a quella degli spazi della formazione. Il problema non è costituito dalla possibilità di garantire la ripresa delle attività ludiche e ricreative, ma che non vi siano le condizioni per garantire pure la ripartenza in sicurezza degli Atenei. La pericolosità degli spostamenti di studenti fuorisede sembra una preoccupazione eccessiva in un momento in cui la mobilità nazionale non sembra più subire limitazioni di alcun tipo e, pertanto, è presentata come sicura. Si è detto che, nonostante il grave ritardo sulla ripresa delle attività universitarie, la continuità didattica sarà ancora salvaguardata dalle modalità telematiche, che consentono il regolare svolgersi delle lezioni e delle sedute d’esame a distanza.

L’insistenza con cui questo modello formativo è stato proposto negli ultimi mesi genera il sospetto che tale scelta sia dettata – più che dalla necessità di attendere i protocolli – dalla volontà di approfittare dell’emergenza socio-sanitaria per modificare il paradigma universitario e puntare sulla DaD. Non vi è tuttavia alcuna intercambiabilità tra la modalità di fruizione dell’insegnamento in presenza con quella da remoto e sostenerlo significa ignorare il  fondamento culturale e civile dell’istruzione. Sarebbe già di per sé profondamente riduttivo considerare i luoghi di formazione unicamente come spazi in cui trasferire un sapere meramente nozionistico, tuttavia non si possono neppure ignorare i limiti applicativi di un simile sistema. Durante il lockdown sono stati penalizzati tutti quegli studenti che non possiedono strumenti e condizioni abitative idonee a supporto di questa specifica modalità didattica, fortemente legata al problema di digital divide che separa le diverse famiglie italiane e anche gli atenei del Meridione e quelli del Nord Italia.

Come non ci si è preoccupati di consentire quanto prima agli studenti di riaccedere alle aule, non ci si è forse domandati cosa succederà nel prossimo anno accademico. Non è illogico supporre che la grave recessione provocata dall’epidemia causerà un forte impoverimento della popolazione, probabilmente in misura più decisa al Sud, la cui base economica era già in una situazione di maggiore fragilità. Molte famiglie potrebbero decidere di non investire in istruzione superiore, cosa che determinerebbe un conseguente calo delle immatricolazioni.

Se è vero che la laurea offre, o dovrebbe, occasioni di lavoro più qualificate e gratificanti, è pur vero che l’Università contribuisce a formare individui più consapevoli, accrescendo la partecipazione collettiva e democratica ed implementando la cittadinanza attiva. Avere pochi laureati significa pure trovarsi in un sistema produttivo arretrato e una comunità civile meno evoluta. Di un cambiamento strutturale, necessario al mondo universitario, ad oggi non vi è traccia, come non sembra esserci un reale interesse dello Stato nei confronti del mondo accademico. Dalla crisi si esce anche implementando le competenze e non, piuttosto, rendendo ulteriormente difficile l’accesso alla cultura ed alle possibilità che l’istruzione dovrebbe essere in grado di offrire, se non fosse troppo spesso trattata come un bene di seconda mano.


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