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POSSIAMO tirare un respiro di sollievo dalle recenti decisioni della Fiat di assorbire al 100% la Chrysler, collocandosi al settimo posto nella graduatoria delle fabbriche che costruiscono automobili nel mondo, traguardo non facilmente immaginabile soltanto qualche anno fa: il titolo Fiat ha registrato una impennata straordinaria alla notizia della fusione. Pare, tra l’altro,  che non si dovrà ricorrere a nuovi aumenti del capitale sociale, ma che gli impegni finanziari conseguenti all’acquisto totale della azienda di Detroit saranno fronteggiati con un esborso cash sostenibile (1,75 miliardi di dollari) per le casse del Lingotto, cosa questa che è stata valutata positivamente dall’agenzia di rating Fitch.

La Fiat si è quindi ulteriormente globalizzata, lanciando il suo guanto di sfida alle agguerrite concorrenti che ovviamente non se ne stanno con le mani in mano, anzi si stanno posizionando nelle alleanze e nella introduzione di nuove tecnologie con investimenti massicci (vedi Volkswagen,  Ford, Bmw).

A valle della concentrazione Fiat-Chrysler restano tuttavia molti problemi da risolvere: la sfida volta ad essere competitivi su tutti i segmenti di mercato, ivi compresi  i modelli di fascia alta, è tutta da dispiegare, il mercato europeo della Fiat è ancora in grande sofferenza, come evidenziano i dati annuali sulle vendite, al netto della ripresa di dicembre (+1,4%), le positive ripercussioni sugli stabilimenti Fiat in   Italia sono allo stato potenziale, rappresentano, come dire, il futuribile, i nuovi modelli dovranno incontrare il favore del pubblico italiano, europeo ed in particolare americano, un piano del Governo per l’auto è ancora una promessa e niente più.

Le condizioni nazionali, per altro verso, a cui fa riferimento l’industria torinese per sviluppare il mercato interno non sono certo ottimali, crisi economica planetaria a parte, ed attengono al costo del lavoro, a quello   dell’energia superiore del 30% rispetto ai paesi concorrenti, un fattore decisivo per il settore auto non facilmente comprimibile a causa degli oneri fiscali che investono anche il prezzo della benzina, gli oneri aggiuntivi dovuti ad una burocrazia non certo paragonabile alle altre nazioni, la pressione fiscale tra le più alte al mondo, le relazioni sindacali che incontrano non pochi ostacoli.

Ma restiamo in casa nostra: Marchionne si è impegnato a presentare entro aprile il piano per gli impianti italiani.  Lo stabilimento di Melfi ha ripreso la sua centralità nel pianeta del Lingotto. La Sata è avanti rispetto agli altri stabilimenti Fiat: se ne conoscono i modelli da costruire (Jeep e Suv, in aggiunta alla 500 e Punto), la ristrutturazione degli impianti è ormai cosa fatta, dunque gli impegni sugli investimenti e sulle nuove produzioni sono stati mantenuti, stabilimenti come Cassino devono purtroppo ancora patire tempi alquanto lunghi di rilancio produttivo. Restano, tuttavia, per Melfi e quindi per la Basilicata due problemi di non poco conto: primo, lo sviluppo di una forte struttura di servizi che normalmente sono l’effetto della presenza di una grande industria manifatturiera, quella per intenderci che gli economisti (da keynes a Myrdal ) chiamano “di causazione  circolare cumulativa” che in parole semplici sta a significare  la moltiplicazione delle opportunità lavorative e di reddito, connesse ed a seguito di un grande investimento industriale (Melfi in tal senso è un caso di scuola) e secondo, l’effettivo livello occupazionale che la ristrutturazione comporta.Sul primo punto, va rilevato uno studio di un economista della Bocconi di Milano, Lanfranco Senn, secondo cui i 6 mila salari e stipendi previsti in origine da distribuire alla forza lavoro impiegata alla Sata di Melfi possono dar luogo ad altri 19 mila nuovi posti di lavoro negli altri settori produttivi, in particolare nei servizi alle imprese e per esigenze abitative. E’ appena il caso di rilevare che si tratta di una previsione occupazionale virtuale anche se suffragata da situazioni empiriche acquisite in altre realtà territoriali . Si può tendere verso i 19 mila posti di lavoro o allontanarsene, come è successo finora, in rapporto alla capacità, da un lato, dell’azienda torinese di svolgere una funzione educativa nei confronti della piccola e media impresa locale, operazione questa su cui la Fiat si è spesa poco o nulla, agendo sostanzialmente da “separata in casa”, e dall’altro, dalla intraprendenza della impresa locale nel cogliere tale opportunità. L’obiettivo richiedeva un  progetto ed una politica ad hoc, intorno alla quale mobilitare i vari soggetti interessati (Regione Basilicata, Fiat, Confindustria regionale, sindacati).  Il progetto non c’è stato: evidentemente i politici erano impegnati su altri fronti, le imprese regionali, salvo qualche rara eccezione, hanno pensato di fare case e basta, la Fiat, non sufficientemente incalzata, si è ben guardata di prendere qualche consistente iniziativa. More solito, si è persa l’ennesima occasione per fare sviluppo, coinvolgendo in profondità l’economia lucana avanti ad un evento paragonabile a ciò che fece  per il melfese Federico II 8 secoli fa. Questa delle occasioni mancate richiederebbe spazio che purtroppo non è disponibile. Ci si limita a dire che siamo in presenza di fatti incontrovertibili che legano il mancato dispiegamento delle potenzialità della Fiat a Melfi con il dirottamento dei 69 milioni di euro dello schema irrigua Basento-Bradano, piuttosto che con i ritardi nel completamento della superstrada bradanica. Si tratta di interventi ritenuti poco interessanti dalla classe dirigente regionale, pur essendo strategici per collocare la Basilicata nel contesto dello sviluppo dell’intero Mezzogiorno, che hanno tuttavia due soli difetti: non coincidono con le rappresentanze di potere regionale e richiedono la concentrazione di risorse che la classe politica preferisce distribuire a pioggia, per ottenere “facile” consenso che alla lunga paghiamo amaramente. Nulla succede a caso: Procrastinare il sottosviluppo conviene alla classe dirigente.      

Sul secondo punto, ossia sul mantenimento o crescita dei livelli occupazionali, il discorso è aperto, l’azienda ad aprile dirà quali conseguenze occupazionali la ristrutturazione comporterà. Un incremento di occupazione va affrontato per tempo, con misure formative, ecc. Se finora non si parla di ciò i dubbi sull’aumento di occupazione sono legittimi. In presenza di una contrazione della occupazione si pone il problema all’incontrario: finora il 50% della forza lavoro è collocata con avvicendamenti in Cassa integrazione, una decisione che ci sta tutta in presenza della revisione degli impianti. Ma domani che succederà? Sarà bene che il governo regionale metta i piedi nel piatto, i sindacati si stanno già muovendo in tale senso a scala nazionale e dunque per l’intero comparto italiano della Fiat. L’intera classe dirigente presti attenzione al possibile indotto sociale ed economico: non è mai troppo tardi.

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