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«OGGI un signore mi ha scritto che il mio lavoro sarà apprezzato dai figli dei nostri figli», scrive Franco Arminio sulla bacheca del festival La Luna e i Calanchi, in programma da ieri e fino a giovedì 27 ad Aliano. Andrea Di Consoli, scrittore e autore televisivo che ama entrare nella carne viva dei temi lucani, la pensa allo stesso modo: «Andrà a finire che la Basilicata s’impiccherà alla sua stessa noia e resteranno solo gli anziani. Sento i soloni e i puristi della tradizione lucana, come se ne esistesse soltanto una piuttosto che tante, criticare il festival, e in particolare il fatto che Arminio “non è lucano”, quasi appellandosi a un diritto territoriale, tribale. Non ho nulla contro la medietà ma noto un impiegatismo diffuso praticato da persone noiosissime, intellettuali di paese vittime di provincialismo e mossi da rancore e invidia. Mi sento di dire una cosa: giù le mani da Franco».
«Aliano è un miracolo. Nessuno scrittore in Italia ha mai mobilitato tante persone verso un piccolo paese», ha scritto Arminio, che però ha definito Aliano anche «una meraviglia irraggiungibile per gli scoraggiatori militanti». Chi vuole depotenziare il festival?
«Chi rifiuta a priori il dinamismo, il movimento, quella potenza in un certo senso erotica ma non nell’accezione sessuale. Sono i censori di cui parlavo prima, quelli che provano fastidio per qualsiasi novità e difendono la chiusura e la conservazione, salvo poi piangere per il Pil e il reddito bassi, o per l’emigrazione giovanile. Evidentemente si sentono più felici in una terra triste e cupa, dove non accade nulla, per poi piangere meglio. Si arroccano su una presunta koinè lucana che non esiste. Sono piccolo borghesi che si ergono a custodi del sacro passato. Sono immobilisti, credono nella sacralità e staticità dei luoghi, non sanno che solo chi non fa nulla non commette errori. E se qualcuno fa qualcosa, o è pagato da qualcuno o è raccomandato. Arminio ha un’intelligenza geniale e vitale, crea movimento in una Basilicata e un Sud bloccati. È una boccata d’ossigeno».
In realtà la critica che viene mossa ad Arminio è soprattutto legata ai finanziatori della manifestazione.
«La realtà è che il Comune di Aliano chiede i soldi alla Regione e la Regione pesca dal fondo del progetto Tempa Rossa. Il festival costa 55mila euro. Non sono prebende, si tratta di soldi che, come le royalties, appartengono a tutti. Arminio è direttore artistico del festival, non è quello che cerca i finanziamenti…».
I no triv la pensano diversamente.
«Io invece mi chiedo: e anche se fosse? Voglio dire: se le compagnie finanziassero un festival come quello di Aliano io non avrei nulla da ridire. Anzi: credo che i grossi gruppi petroliferi siano fin troppo disinteressati al territorio. Diano più soldi e dialoghino di più, non hanno nulla da nascondere, non avallino questa caricatura. E poi non mi piace questa ipocrisia mista a moralismo per cui il petrolio e la benzina li usiamo ma non accettiamo presunte “ingerenze”. Volete la moglie ubriaca? Dovete accettare la botte vuota».
Come si sposa la paesologia con le trivellazioni?
«Sono piani che non possono intersecarsi. L’intellettuale non deve necessariamente avere una funzione resistenziale. L’errore è scambiare Arminio per il difensore della natura e della purezza dei borghi: il suo ragionamento è un altro, e cioè che il brutto di un lampione può diventare poetico se visto con altri occhi, basta rinnovare lo sguardo e dare nuova dignità ai luoghi».
Non tutti quelli che ripudiano la modernità stanno facendo una battaglia di retroguardia, non crede?
«Io posso dire che la modernità e le industrie non mi spaventano affatto, non me ne sento minacciato: non sono un nemico delle compagnie petrolifere come non lo sono dell’Fca, anzi ringrazio Marchionne, ce ne fossero come lui, dobbiamo dirgli grazie per il fatto di assicurare un bonifico a fine mese a un padre di famiglia o a una madre che vuole fare una regalo ai propri figli. E poi mi pare che il Vulture-Melfese esprima anche altro che non siano automobili: l’Aglianico. Non mi sembra un territorio devastato dall’industrializzazione, semmai un modello di convivenza tra vecchio e nuovo. Mi sembra che siamo regrediti rispetto ai tempi in cui la c’era la Dc, tempi in cui videro la luce la Basentana, la diga di Senise che fino a prova contraria non è un luogo della tradizione ma dell’ingegno umano. È il bello della Basilicata: in una settimana puoi fare tutto, scegliere le discoteche o i boschi, i borghi o il turismo di élite oppure quello di massa o ancora quello culturale, e poi la Rabatana, Tricarico, Tursi».
Paolo Rumiz su Repubblica di ieri notava lo scempio delle pale eoliche che stanno devastando la Basilicata proprio nel suo paesaggio e nelle sue peculiarità, oltre che nelle sue strade interne.
«Io al contrario mi sento affascinato da questi strani monumenti giganti partoriti dal genio umano. È l’avanzamento della società, se l’uomo non fa nulla, la natura di per sé non basta. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il benessere è un valore. Il pauperismo lo capisco se è una scelta di vita. Se uso il cellulare non posso fare le barricate contro l’inquinamento ambientale. Continuo a vedere un Paese edonistico divorato dal moralismo ipocrita, tutti nel fortino a difendere la purezza contro il mondo corrotto. Torno al paragone di prima: molti vogliono la moglie vergine, a casa col burqa, e poi magari vanno a puttane».
Tornando invece alle trivellazioni, in molti ripetono che “la Basilicata ha già dato”.
«E la Lombardia, l’Emilia? Non siamo mica la terra dei fuochi, uccidono di più le fabbriche del centro-nord e le grosse centrali a un passo da noi. Ripeto: l’Eni è una compagnia di Stato, non una banda di colonizzatori, e la Basilicata non è una Repubblica indipendente. Esistono un interesse nazionale e una ragion di Stato, siamo italiani ed europei e facciamo parte di un occidente capitalistico: ci sono dei costi. Chi non ama questo modello faccia la cortesia di non piangere quando escono i dati Svimez perché vorrebbero standard economici altissimi ma temono la modernità: festeggino se povertà ed emigrazione giovanile crescono, piuttosto!».
Vinicio Capossela – che col suo Sponz in Irpinia fa da anni un’operazione simile a quella di Aliano – sulla Lettura del Corriere della Sera in edicola da oggi si chiede che fine ha fatto la festa come idea di comunità in un mondo in frantumi. C’è davvero ancora voglia di festeggiare?
«Certo. Si andava alle feste per conoscere e sedurre e farsi sedurre. La tradizione? Penso all’Ottocento: era un tempo molto trasgressivo. Nelle feste di paese degli anni 80 c’era molta malizia, viviamo in una terra di oscurantismo ma anche di correnti dionisiache, i pitagorici di Metaponto non passavano mica il tempo solo a pensare. Chi ha paura della morte esorcizza la disperazione nella gioia della festa: il Decameron di Boccaccio nasce come fuga dalla morte imminente della peste».
Qual è la forza de La Luna e i Calanchi?
«Il suo essere anche caos. Non è un festival classico, non ha un cronoprogramma stabilito, è un anti-parlamento di reduci, perdenti, vincenti, un’anti-assemblea in cui tutti possono parlare».
Un’ultima domanda su Potenza: cosa pensa del capoluogo?
« È una città seria, importante, di commercio e imprenditoria, una città dei servizi dove si vive bene. Serve uno scatto di orgoglio. Anche qui: basta caricature».

e.furia@luedi.it

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