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di PASQUALE VIOLI
REGGIO CALABRIA – Il 13 aprile del 1994 Simone Castello, uomo fidato di Bernardo Provenzano, imbucò la prima delle due lettere che lo “zio Binnu” gli aveva chiesto di spedire da Reggio Calabria. Aprile ’94 e luglio ’94, date che nel panorama della criminalità che viaggia sull’asse Sicilia-Calabria indicano il rapporto stretto che c’era e c’è tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta.
 Il boss dei boss Bernardo Provenzano aveva le idee chiare sulla sua latitanza, sul fatto che non dovesse avere rapporti con nessuno e che la tecnologia lo avrebbe fatto cadere nelle mani delle forze dell’ordine. E’ rimasto latitante dal settembre del 1963 fino all’ 11 aprile del 2006 quando venne scovato in una masseria di Corleone, il suo regno. Per 43 anni è stato un’ombra che ha guidato il vertice della mafia siciliana insieme a Totò Riina. Oggi le sue lettere, i suoi pizzini, sono allegate al fascicolo del processo sulla trattativa “Stato-mafia”, tra quelle missive anche quelle spedite da Reggio Calabria da Simone Castello, l’insospettabile uomo di “zio Binnu”. Ma perchè spedire delle lettere indirizzate ai suoi generali da oltre lo stretto? I motivi, che spiegheranno i pentiti, sono due: il depistaggio creato per far credere che Provenzano non fosse in Sicilia, e i contatti con gli uomini dei clan della ‘ndrangheta che pure erano i affari con i corleonesi. E di questi contatti tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ne parlano due pentiti chiave della mafia siciliana: Angelo Siino e Luigi Ilardo. Il primo racconta proprio del permesso chiesto a Bernardo Provenzano di poter andare a trattare con i calabresi. «Io avevo chiesto a Giuseppe Madonia di poter incontrare questi calabresi – racconta il super pentito Angelo Siino ai magistrati della Dda di Palermo – siamo intorno al 1991. Dovevo incontrare tale Natale Iamonte che era il capo della mafia di Melito Porto Salvo e Piddu Madonia mi disse di si ma che dovevamo informare anche lo “zio Binnu” che poi arrivò l’autorizzazione che mi ricordo dovevamo andare per sistemare un’impresa, sono certo di questo». Ma il pentito Siino ai magistrati dell’antimafia siciliana fa anche un’altra confidenza: «Io avevo chiesto un incontro con i calabresi – riferisce il collaboratore di giustizia – e sapevo che Giuseppe Madonia aveva amicizie importanti in Calabria, le mie si erano essiccate con la morte di Paolo De Stefano». 
A confermare i rapporti tra gli uomini della ‘ndrangheta e i corleonesi ci ha pensato anche Luigi Ilardo, fidatissimo di Provenzano e persona a cui il super boss che per 43 anni è rimasto latitante ha inviato diverse lettere in codice. «C’erano stati degli omicidi, lì a Catania ma anche dopo a Gela – ha detto il pentito Ilardo – poi da me vennero Franco Romeo e Nitto Santapaola e Santa Paola mi disse che dovevo stare attento perchè Calderone (ndr il boss Giuseppe Calderone) voleva fottere me e mio cognato, allora facemmo arrivare degli amici calabresi, erano tre, uno lo conoscevo, tale Ciccio “Turro”, gli altri no, erano tutti di Reggio Calabria e stavano con me sempre, avevano sempre la pistola. Allora io quando c’erano questi iniziai a girare per cercare Calderone, era chiaro che se io guidavo la motocicletta allora avrebbe dovuto sparare Ciccio “Turro”, il calabrese.
 Poi seppi che tutto era iniziato perchè mio zio era contrario alla droga e invece c’era stato un accordo tra Badalementi, Bontate ed Inzerillo». Ma è nell’azione di fuoco che Luigi Ilardo racconta dell’intervento dei calabresi. «Tramite Santapaola riuscimmo ad avere un appuntamento con Calderone dalle parti di Acireale – riferisce il collaboratore di giustizia – allora organizzammo due gruppi e in uno c’erano i calabresi, Ciccio “Turro” e un latitante della zona di San Luca che io chiamavo Mico. Fu Turro a sparare a Calderone con una 38». Poi più volte ancora i due collaboratori di giustizia fanno riferimento ai legami con la Calabria e Luigi Ilardo racconta di quando fu lui, per comunicare con il super boss Bernardo Provenzano, incaricò Simone Castello di spedire una lettera, nel luglio del 1994, da Reggio Calabria.

REGGIO CALABRIA – Era il 13 aprile del 1994 quando Simone Castello, uomo fidato di Bernardo Provenzano, imbucò la prima delle due lettere che lo “zio Binnu” gli aveva chiesto di spedire da Reggio Calabria. Due lettere datate aprile e luglio ’94 che nel panorama della criminalità che viaggia sull’asse Sicilia-Calabria indicano il rapporto stretto che c’era e c’è tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta. Il boss dei boss Bernardo Provenzano è rimasto latitante dal settembre del 1963 fino all’ 11 aprile del 2006 quando venne scovato in una masseria di Corleone, il suo regno. Per 43 anni è stato un’ombra che ha guidato il vertice della mafia siciliana insieme a Totò Riina. Oggi le sue lettere, i suoi pizzini, sono allegate al fascicolo del processo sulla trattativa “Stato-mafia”, tra quelle missive anche quelle spedite da Reggio Calabria da Simone Castello, l’insospettabile uomo di “zio Binnu”. Ma perchè spedire delle lettere indirizzate ai suoi generali da oltre lo stretto? I motivi, che spiegheranno i pentiti, sono due: il depistaggio creato per far credere che Provenzano non fosse in Sicilia, e i contatti con gli uomini dei clan della ‘ndrangheta che pure erano in affari con i corleonesi. E di questi contatti tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ne parlano due pentiti chiave della mafia siciliana: Angelo Siino e Luigi Ilardo.

 
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