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COSA influenza di più le mie decisioni? Le emozioni oppure la ragione? Basterà un hashtag a cambiarmi la vita o a convincermi per chi votare? Certo, se fossimo solo in due a parlare, e uno per dirmi una cosa usasse Twitter, penserei che è un deficiente. Le cose però cambiano quando non si è in due, nemmeno in tre, ma in molti: non è un caso che ormai tutti i politici, navigati e non, abbiano un account Twitter. E purtroppo lo usano. È tutto un fiorire di orgoglio per il nostro territorio e la sua storia, che deve essere senza confini, siccome c’è indubbiamente necessità di rinnovamento. Ma come si lo si può fare? Qualcuno ci prova mettendo pace, altri hanno postato più concretamente su Facebook una foto di Padre Pio con la laconica scritta: “pensaci tu”. C’è poi chi, per convincermi a votare per lui, l’ha buttata sul generazionale, siccome è giovane e mi capisce, o chi mi vuole guidare perché lavora nel settore trasporti, o ancora chi ricicla lo slogan di una banca perché si sa: la nostra Regione è differente. Non sono pochi quelli che puntano sull’istinto da crocerossina, perché da soli no, ma insieme ce la si può fare, ovviamente non facendo questa politica ma l’altra, e raccogliendo le idee per una Basilicata migliore avendo non una, non due, ma ben 131 ragioni. 

C’è poi chi non si candida per sé e nemmeno per me o per te, ma lo fa per passione, va a capire se quella di Nove settimane e mezzo oppure quella di Depéscion. Però tutti, indistintamente, ti spiattellano il loro faccione in ogni dove, che vederli così da vicino ha perlomeno un effetto sicuro: già un paio di volte mi ha fatto passare il singhiozzo. È vero, bisogna cambiare qualcosa in questa Regione, e per questo mi propongono una rivoluzione democratica, senza spargimento di rimborsi, ma poi c’è chi risponde, siccome la sua forza siamo noi, che invece bisogna opporre resistenza. Sempre democratica, chiaro. I più empatici sono quelli che lo ammettono candidamente: abbiamo un limite. Abbiamo bisogno di te per elaborare la nostra proposta, anche perché la democrazia è democrazia solo se è partecipata. Per questo tutti mi vogliono parlare, prendersi un caffè: dicci le tue impressioni, scriviamo insieme il nostro futuro perché il tuo pensiero è importante. Che poi mi chiedo: quelli candidati nella stessa lista, non dovrebbero avere lo stesso programma? No. Ognuno è candidato per sé, raccoglie idee, fa propositi, ti invita alle aperture dei suoi comitati elettorali: in camper, sul tetto, in un garage, come capita. 

Ci siete mai andati all’inaugurazione di un comitato elettorale? È come mangiare quattro MacBurger consecutivi: almeno una volta nella vita va fatto. La gente che ci trovi è per lo più formata da amici, parenti più o meno stretti del candidato, e gente che prima o poi spera di saltare sul carro, del tipo: quando non eri ancora nessuno io c’ero. Se ci capitate per caso non è difficile accorgersi di dove ci si trova, l’iconografia è quella tipica delle messe: il candidato è sempre in posizione cristocentrica, dietro ad un lungo tavolo, e generalmente è impegnato a giocherellare col cellulare. Molto probabilmente lo vedrete parlare con la mano davanti alla bocca a coprire il labiale, annuire agli interventi degli altri, e fare fotografie che poi posterà immediatamente su Twitter: quanti eravamo, la vostra presenza mi dà la forza per andare avanti. Anche perché a tornare indietro nel tempo non si può, ma vaglielo a spiegare. Poi finalmente iniziano a parlare e a dire cosa vogliono fare, una volta eletti. E tu li ascolti, rendendoti immediatamente conto che non è colpa di Twitter se dicono poco, è proprio che hanno poco da dire. Viaggiano per slogan: il merito, la fuga dei cervelli, il petrolio, l’ambiente, l’onestà, le facce nuove, le donne. Ah, le donne. Io, lo ammetto, se fossi donna mi offenderei ogni volta che qualcuno, sia uomo che donna, apre bocca in nome delle donne, perché non c’è niente di più offensivo dell’essere ridotte a categoria, a quota rosa, a corrente politica non di idee ma di stampo sessuale. Come se essere una donna non significasse avere competenze e un cervello proprio, ma averne uno per tutte. Come essere pinguini, o marmotte, o zanzare. I pinguini, le marmotte, le zanzare. Le donne. 

E allora ti dispiace di esserci andato al comitato elettorale, tanto valeva continuare a seguire i tweet in rete. Prima di guadagnare l’uscita mangi un pasticcino, stringi la mano molliccia di chi ti strizza l’occhio compiacente e corri a guardare il cellulare, per vedere se sei finito in una delle foto appena postate dal candidato, per rimuovere immediatamente il tag.  Ma questo è il bello delle elezioni 2.0: se non hai Twitter non puoi sapere chi votare e, peggio, se non hai Twitter non ti puoi candidare, anche perché il cittadino vuole dire per forza la sua. Con Twitter può fare una bella domanda diretta al suo candidato, e lui non può nascondersi: o risponde o deve fare perlomeno un retweet, che creerà istantaneamente l’ammirazione di tutti gli altri potenziali elettori e commentatori. Oh hai visto? Gli ha risposto! Lui sì che ci tiene al contatto con la gente. La gente. Ma la gente come decide per chi votare? Con le emozioni o con la ragione? Mi dico che dovrei optare per la seconda, anche perché con la prima viene solo il mal di stomaco. Però passare dai cinguettii alla materia concreta, alle proposte organiche, condivise e comprensibili, magari anche più lunghe dei centrotrenta caratteri, non è immediato. Per farlo servirebbe una protesta 3.0: mettersi offline. Per legittima difesa.

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