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I cerimoniali
della Pasqua popolare s

di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Domenica scorsa – “delle Palme”, che commemora l’ingresso di Gesù Cristo a Gerusalemme – è iniziata l’ultima e decisiva fase del ciclo pasquale, che ripresentifica, com’è noto, la Passione e Morte del Salvatore. Ogni azione rituale compiuta in questa Settimana Santa, sino all’“Affruntata” (l’incontro tra la Madonna e il Cristo Risorto, con la mediazione di San Giovanni, che svolge la funzione di messaggero) di domenica di Pasqua o di Martedì in Albis (in alcuni paesi, quali Dasà), rinvia a universi simbolici estremamente complessi, che vanno indagati con rigore in tutte le loro articolazioni. In questo scritto vorrei riflettere sulla funzione essenziale che la parola religiosa popolare svolge in tale complesso cerimoniale. Intendo “parola” nella sua accezione più ampia, comprensiva, quindi, di gesti, silenzi rituali, preghiere, rumori comunque organizzati e così via: tratti con i quali da parte dell’uomo ci si rivolge al Divino per entrare comunque in contatto. I sentimenti possono essere tradotti in parole, come diversi sistemi linguistici e le numerose letterature manifestano ampiamente. Si pensi, ad esempio, come la poesia abbia esaltato il linguaggio dell’amore; come la ritualità funebre abbia fornito orizzonti di discorso al dolore per la perdita della persona cara; come l’ira abbia nelle differenti culture forme previste di concretazione, come hanno, del resto, altri sentimenti quali l’invidia, la gelosia, eccetera. Una letteratura scientifica si è accumulata nel tempo in misura sempre più ampia: essa va dagli studi di Marcel Granet a quelli di Ernesto de Martino e Mariano Meligrana, dagli scritti sulla “scelta” della eliminazione periodica di beni a quelli sul dono e il malocchio quale meccanismo equilibratore delle più forti differenze economiche e sociali, indagati nella forma del potlach (distruzione cerimoniale dei beni) da Franz Boas e nei sistemi connessi alla jettatura nelle aree folkloriche italiane studiati tra gli altri da Clara Gallini e nell’illuminismo letterario napoletano analizzato da de Martino e da me stesso. Il dolore può paralizzare, portare a un senso di assoluta impotenza, si rischia di restare schiacciati nella propria datità. Il rito, offrendo la possibilità di distendere, per così dire, la propria azione in uno schema narrativo prefissato, consente in qualche maniera di trascendere tale datità, di superare il senso di assoluta impotenza attingendo, così, il piano dell’operatività, della soggettività. Tale meccanismo, com’è noto, è stato indagato esemplarmente da de Martino nella sua monografia sul pianto funebre e l’“ethos del trascendimento” da lui individuato può illuminare diverse procedure rituali che ridischiudono l’orizzonte operativo a una presenza umana altrimenti impedita. Nell’ideologia della morte nella società contadina del Sud, attraverso una serie di modalità viene assicurata la possibilità di un rapporto con i propri familiari defunti da parte dei superstiti. Nonostante la morte, contro la morte; per la vita, per l’affermazione del suo bisogno di essere. Mariano Meligrana e io lo abbiamo ampiamente dimostrato nel nostro “Il ponte di San Giacomo” (Palermo, Sellerio, 1989) e a esso mi sia consentito rinviare. Analogamente i diversi atti rituali della Settimana Santa tendono ad assicurare un rapporto diretto da parte dei fedeli con Gesù Cristo, assunto come morto paradigmatico. E allora la parola religiosa popolare svolge essenzialmente la funzione di medium, di ponte tra l’umano e Dio, tra il precario e l’Eterno, tra la fragilità e l’assoluta saldezza. Nella Settimana Santa viene messo in scena una gigantesca teatralizzazione della speranza. La speranza di non finire con ciò che finisce, di non restare prigioniere di se stessi, di attingere comunque l’immortalità o l’illusione di essa, di trasformare la propria afasia in orizzonti di discorso, in parola. Si conferma così, se pur ve ne fosse bisogno, la centralità della Settimana Santa per la sopravvivenza emotiva, psichica e culturale degli individui, delle collettività. Vorrei riferirmi, infine, all’usanza di consumare in questo periodo delle uova (di gallina, di anatra, di piccione) cotte al forno, dipinti (nei paesi umbri) o di cioccolata. Ho sottolineato sulle pagine di questo giornale, che i cibi, oltre all’indubbio ed essenziale valore nutrizionistico, si inseriscono in un orizzonte simbolico che rende possibile il superamento del dato in valore, l’ethos del trascendimento, appunto. L’uovo è simbolo del Mondo, del Creato, come ci hanno mostrato con lucida suggestione gli storici delle religioni, tra i quali spicca per ampiezza di orizzonte e per rigore dell’analisi Mircea Eliade. In occasione della Pasqua si producono 40 milioni di uova di cioccolata, con “sorpresa” o no che consumiamo per la gioia dei bambini e per deliziare il nostro palato. Con tale consumo in qualche modo partecipiamo all’assunzione del mondo – esemplificato, come appena ricordato, dall’uovo – , all’appropriazione di esso, alla sua interiorizzazione. I riti, lo sappiamo, sono essenziali quale fondamento delle società, quale loro collante. Comprendiamo così come accanto ai riti di antica tradizione si sono affiancati nel tempo nuovi riti, diffusi in tutti gli strati sociali e le fasce di età, nelle aree “arcaiche” e in quelle urbane contemporanee (si pensi, per tutti agli alberi di Pasqua che si vanno diffondendo sempre più nel nostro Paese), che sviluppano una notevole carica di aggregazione e tendono a diventare anch’essi “tradizione”. Spesso i rituali religiosi vengono utilizzati nel quadro di strategie di potere, tese a comunicare e rinsaldare posizioni di dominio e di prestigio, che saranno spese su altri piani nella quotidianeità. Clamoroso esempio è la vicenda di Sant’Onofrio, nel Vibonese, che vede, come già l’anno scorso, un forte scontro tra la malavita locale, i cui esponenti tradizionalmente si arrogavano il privilegio di portare in giro processionalmente le statue, e le autorità civili e religiose – il prefetto di Vibo Valentia, il Vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea – che tale “privilegio” non intendono in alcun modo riconoscere. Vicenda emblematica, questa, di quanto debba essere vasto l’impegno contro la criminalità organizzata e quanta vigilanza esso richieda. Emblematica anche di come le manifestazioni religiose siano percepite quali essenziali per la vita simbolica delle collettività, come diverse componenti di esse ritengano di dover partecipare al loro svolgimento, quali che siano i loro comportamenti nella vita quotidiana. Coacervo di contraddizioni, slanci, aperture, ferocie, chiusure, che in forme e intensità diverse segnano con il loro groviglio inestricabile l’esistenza degli individui, delle comunità. Nella loro variegata fenomenologia, i rituali, consapevoli e inconsapevoli, che cadenzano la Settimana Santa si pongono comunque come operazioni essenziali per la rifondazione della vita, delle sue ineludibili ragioni.

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