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di FULVIO LIBRANDI
C’è sempre un disagio nell’utilizzare la parola “pentito” quando si parla di ’ndrangheta. Per indicare questa figura relativamente nuova nel panorama culturale calabrese, la lingua parlata non è riuscita a produrre un termine nuovo, pertanto si preferisce risignificare parole che, avendo un’altra storia e un altro portato simbolico, facilmente si prestano a ingenerare equivoci. In realtà è difficile ridurre a categoria unica un fenomeno così complesso, che comprende coscienze, motivazioni, retaggi culturali, molteplici e tra loro diversi, ma quale che sia il termine utilizzato, è certo che il problema costituirà in futuro un punto nevralgico della storia della regione sul quale è bene che la comunità si interroghi in profondità. La difficoltà principale di una simile discussione risiede nel fatto che la si affronta spesso in situazioni d’emergenza, quando monta una polemica, senza quindi la possibilità di guadagnare il giusto distacco critico rispetto al problema; ne consegue che la discussione si confonde e si perde nelle difficili contingenze degli episodi di cronaca, che sono del pari importanti, a volte vitali, ma che nella discussione generale devono essere analizzati con un altro metro. Dal solo punto di vista che mi compete, quello che riguarda le dinamiche dei processi culturali, proverò a proporre due riflessioni sul senso del pentitismo (chiamiamolo così): la prima sul valore simbolico della decisione di collaborare con la giustizia; la seconda sulla funzione cruciale del pentito all’interno di una struttura fortemente familista. *** Si è discusso nelle ultime settimane sulla vicenda di Giuseppina Pesce, una donna di Rosarno accusata di ’ndrangheta che si è pentita e in conseguenza di ciò, come avviene di necessità vista la struttura familistica di questa organizzazione, ha accusato i suoi parenti. La donna dopo qualche tempo è ritornata sulla sua decisione, ma in questa sede non voglio entrare nel merito delle polemiche che sono seguite alla sua ritrattazione perché i lettori di quotidiani hanno avuto materiale sufficiente per farsi un’opinione. L’indagine, iniziata da tempo e che nella fase finale, dopo la prima serie di arresti, si è avvalsa anche delle dichiarazioni della Pesce, ha consentito di ricostruire le strategie di uno dei clan più potenti della Piana, quindi di procedere ad altri arresti e a sequestri di beni per circa 200 milioni di euro. L’importanza dell’operazione della magistratura è quindi di tutta evidenza, ma è del pari importante la partita simbolica del pentimento in sé, che in un disegno generale del contrasto alla ’ndrangheta deve essere valorizzato. La scelta di collaborare con “un’altra giustizia”, in un caso come quello di Giuseppina Pesce, comporta il peso grave di decisioni estreme che aprono al rischio dello sradicamento interiore. È drammatica la situazione nella quale gli affetti primari – quelli per i figli, per la sorella, per la madre – entrano in conflitto, pur senza diminuire d’intensità. La vicenda richiama alla mente il senso della tragedia greca, che spesso poneva sulla scena il contrasto angoscioso tra essere e dover essere, tra una famiglia nella quale sei cresciuta e uno Stato che può consentire ai tuoi figli un altro futuro, tra due fedeltà culturali che, in questo caso, tra di loro si escludono. In nuce, la storia di Giuseppina Pesce rischia di essere una tragedia senza catarsi, perché una simile decisione non riguarda solo il passato e il presente di una persona, ma riguarderà quasi certamente ogni giorno della vita futura. Proprio per questo, immaginare che un simile percorso sia senza ripensamenti è da ingenui, e le ritrattazioni (il cui schema è in genere ripetitivo), sono nel novero delle possibilità. Non occorre spiegare l’animo della donna, perché di quel travaglio, anche solo perché uomini di questo Sud, sappiamo già tutto. Ma alla sua decisione di pentirsi, nonostante, o forse a maggior ragione, dopo la ritrattazione, occorre riconoscere un valore speciale, e adoperarsi acciocché diventi una sillaba di un linguaggio nuovo che dobbiamo costruire per parlare di ’ndrangheta. La lezione da trarre riguarda il solo punto di riferimento certo: il “patire” di chi collabora con la giustizia non dipende dall’azione di contrasto dello Stato, ma è interamente riconducibile alla ’ndrangheta. È riconducibile a un’organizzazione che utilizza la violenza nelle situazioni critiche, ma che, nell’esigere fedeltà a un sistema di valori, esercita una violenza ancora più insopportabile, la violenza della costrizione interiore, perpetrata attraverso l’imposizione di un codice familiare che orienta quasi tutte le scelte. La singolarità del pentimento di questa donna consisteva nel suo essere rivolto al futuro, nel sapere che la decisione non presa oggi si sarebbe potuta riverberare nel tempo a venire. Significativamente, in una dichiarazione nel suo primo interrogatorio, riportata da Bianconi sul Corriere della Sera il 24 novembre 2010, la donna dichiarava: “Io potrei cavarmela con qualche anno di carcere, ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato”. L’essere tornata sui suoi passi non diminuisce il senso dell’azione che resta, e deve essere veicolata, come un’azione buona e giusta: “pentirsi”, quale che sia l’accezione del termine, è un volere, è un aver desiderato un’altra direzione della vita per noi o per chi è più importante di noi; è un modo per non identificarsi totalmente con quello che si è fatto o, per dirlo con le parole della donna, con un destino già segnato. Non importa il grado di fermezza o la perseveranza nella decisione, ciò che deve essere valorizzato di questa storia è il suo costituirsi comunque come un atto di libertà. Col dire questo non sto affermando che c’è bisogno di eroi, al contrario. Rifletto su una vicenda esemplare per ribadire quanto è difficile scontrarsi con i canoni della propria normalità, con quello che si considera giusto quando si cresce, amati e protetti, in un ambiente che veicola un certo sistema di valori. In questo caso non c’è contrasto militare efficace, e solo un nuovo modo di “guardarsi dentro” può mettere in crisi il modello. Il problema, ho già detto, è del singolo, ma è al contempo dell’intera regione, di tutti noi indistintamente che con la mafia viviamo in una situazione di intimità culturale. La nostra libertà passa esclusivamente da un guardarci dentro, dall’indagine sui modelli che interiorizziamo senza saperlo e che a volte è necessario combattere. Le parole che decidiamo di utilizzare per raccontare la storia di questo pentimento sono le stesse che utilizziamo per dare un senso al nostro presente, e per questo è bene pesarle. Sappiamo, tutti quelli che viviamo e operiamo in Calabria, che il dramma che il destino ha inscritto nella figura di Giuseppina Pesce è il dramma di un’intera regione; sappiamo che è una figura che si trova su quel limite prima del quale la calabresità è un destino, e oltre il quale la calabresità diventa una scelta. L’altra lezione da trarre è quella della validità del sistema delle garanzie. Ritornando a mente fredda su quanto hanno scritto i giornali sulla vicenda, mi sembra risultino confermate le necessarie tutele dei diritti del singolo. Se è questo il limite oltre il quale i magistrati non si spingono vuol dire che, almeno in questo campo, viviamo in una democrazia compiuta, in grado di avversare con efficacia gli impulsi giustizialisti che tutti, di tanto in tanto, fatichiamo a sopprimere di fronte alla violenza estrema. *** Nei dibattiti mediatici, il pentitismo appare spesso una partita puramente teorica. Intorno al fenomeno si sono consolidate una serie di interpretazioni – a favore o contrarie – che consentono di discutere, e parteggiare, talvolta prescindendo dall’imprescindibile contesto storico di riferimento. All’utilizzo delle dichiarazioni dei pentiti molti riconoscono un’indiscussa efficacia, se è vero che si sono rivelate dirimenti in alcune pagine buie della storia italiana. Chi invece nutre dubbi, si schiera contro un’idea di giustizia che rischia di risolversi in una mera negoziazione delle pene, e avvalora la tesi richiamando alla memoria alcuni errori giudiziari, gravi, che sono diventati parte costitutiva della cattiva coscienza della nazione. Le singole argomentazioni sono tutte sostenibili, ma nel comporle insieme in un quadro che non distingue tra il merito e il metodo, e che prescinde dalla situazione storica calabrese, si rischia talvolta di alimentare quella confusione il cui passo successivo diventa il “buttarla in caciara”. È noto come la ’ndrangheta in Calabria non sia un fenomeno emergenziale. Ha un suo sapere e un suo saper fare che si sono consolidati negli anni, e che negli anni sono andati modificandosi in funzione dei mutamenti che avvengono nella società. Se con la parola tradizione intendiamo il trasferimento nel tempo di codici culturali condivisi, allora la ’ndrangheta è una nostra maledetta tradizione. Il silenzio fisiologico in cui opera è equiparabile al silenzio dei nostri organi vitali nel loro funzionamento normale, la cui presenza avvertiamo nel nostro corpo solo in presenza di un problema. Il contrasto militare alla ’ndrangheta è invece storicamente emergenziale. L’azione dello Stato non viene quasi mai messa a dimora nell’immaginario collettivo, e le episodiche manifestazioni d’indignazione popolare stemperano sempre velocemente. Nonostante i successi conseguiti, l’azione di polizia contro gruppi legati dal collante dell’appartenenza culturale, di codici riconoscibili anche da chi mafioso non è, rischia di essere inefficace nel lungo periodo. È difficile perseguire chi, pur avendo coscienza di commettere un crimine, aderisce a un altro sistema di valori e ha un’altra idea di cosa sia giusto. Ancora peggio, sappiamo che ci sono facce pulite, i non battezzati, che di ’ndrangheta hanno bisogno, che sono più difficilmente identificabili con le tecniche di indagine tradizionali, e che vivono tranquilli sulle spalle di chi certamente rischia più di loro. La ’ndrangheta non è affatto un sistema perfetto – come spesso malamente viene descritta -, ma è solida, perché solidi sono alcuni principi che regolano i rapporti tra gli affiliati e che garantiscono impunità alla zona grigia. In questo quadro mi sembra sia un errore grave pensare al pentitismo come a una deriva contrattuale della giustizia. Il pentitismo, in una struttura familistica come quella della ’ndrangheta, è il baco del sistema, è un colpo al cuore dell’organismo. È l’attacco dall’interno che oggi la ’ndrangheta non è in grado di reggere, perché è culturalmente impreparata all’evento. Il pentitismo è la partita fondamentale sia sul piano del contrasto diretto, in cui è decisivo quanto il carcere duro o il sequestro dei beni, sia sul piano simbolico, perché sul mito dell’assenza dei pentiti si è costruita l’aura di inscalfibilità del sistema ndranghetista. Credo si possa affermare, con un grado di certezza elevato, che il destino della lotta alla ’ndrangheta stia nella capacità, come si dice in Calabria, di rendere “lasca la tramatura”, di allentare i rapporti solidali, di lavorare dove si intravede uno sfilacciamento. Mettere in dubbio l’efficacia che i pentiti possono avere in questo metodo di contrasto mi sembra operazione debole. È giusto invece, nel merito, tenere altissima la guardia e dubitare sempre delle “verità” di un collaboratore di giustizia, ma sostenere che un pentito può mentire è cosa ben diversa dall’alimentare dubbi sulla correttezza della gestione. Mescolare i piani ingenera la confusione da cui deriva quella blanda azione delegittimante che è pericolosa, soprattutto in questa regione, perché alimenta la cattiva radice del pessimismo dei calabresi e, in definitiva, rischia di svilire il senso della buona battaglia libertaria. Mi rendo conto di come parte di questo ragionamento possa essere capovolto, soprattutto a fronte di pentiti che chiamano in causa uomini delle istituzioni. Questi passaggi sono cruciali e potenzialmente pericolosi per la credibilità del sistema della giustizia, ma proprio per questo è necessario che vengano affrontati col giusto distacco e direi col giusto disincanto. La parola del pentito non può essere giudicata di per sé né vera né falsa, perché l’eventuale validità sta semmai nel riscontro oggettivo, nella riprova. Le dichiarazioni della Pesce, come detto sopra, si inseriscono in un’indagine che durava da diverso tempo, e la loro utilità è consistita nell’avvalorare un quadro già ampiamente delineato. Viviamo tempi di certo più maturi rispetto alle stagioni dei veleni, nei quali non è più sufficiente una semplice dichiarazione per appannare la figura di uomini per bene. Abbiamo bisogno di credere nella validità di un metodo che sia in grado di autoimmunizzarsi, che possa resistere ai possibili tentativi di inquinamento. Su questo si fonda la fiducia nella giustizia. In questo momento, a tratti, la cronaca sembra intrecciarsi con la storia, e la Calabria che fa da sfondo mi sembra una terra nuova, ricca di fermenti e di giovani che hanno una maggiore voglia di conoscenza rispetto ai loro genitori. Credo non sia davvero utile alimentare il dubbio sistematico sull’efficacia del pentitismo proprio oggi, quando la presenza costante di nuovi collaboratori di giustizia in zone diverse della regione sembra il segno di una possibile stagione nuova. E credo sia errato, ma sia detto senza polemica, farlo in nome di un garantismo teorico, di scuola, che rischia di fare male al garantismo autentico di cui hanno bisogno, allo stesso modo, i singoli e la società intera.

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