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di FRANCESCO BOCHICCHIO

LA strada del rigore è stata efficacemente intrapresa: adesso occorre passare alla crescita, che è assolutamente necessaria perché il rigore senza crescita diventa effimero. Monti ha subito pensato in tale ottica alle liberalizzazioni dei mercati e in particolare alla liberalizzazione del mercato del lavoro, con la libertà di licenziamento che diventa centrale. Monti ha subito al riguardo parlato di equità per mostrare che l’attacco ai diritti dei lavoratori non è unilaterale. In tale ottica vi è l’attacco feroce all’evasione fiscale, con accertamenti rigorosi in zone di grande prestigio turistico che hanno creato allarme nei ceti alti. Su questo punto, il “Corriere della Sera” ha dato ampio spazio al dibattito in seno all’orientamento liberale. Il bello è che si sono formati due schieramenti alternativi l’uno all’altro: da un lato, si è applaudito al rigore nella lotta all’evasione, con l’avvertenza di precisare che tale lotta costituisce la forma di equità sociale tale da giustificare i sacrifici (prima dei pensionati e ora) dei lavoratori, e quindi che non bisogna né avere remore nel sacrificare ragioni di questa in nome di un’efficienza del mercato né colpire la ricchezza che è un fattore di efficienza a meno che non sia collegata a illeciti, come nell’evasione fiscale (Giavazzi – Alesina). Dall’altro si è sostenuto che la stessa lotta all’evasione fiscale è anti-liberale e propria di uno stato di polizia nel momento in cui avviene in maniera enfatica e spettacolare e capillare tale da trasformare gli indagati in colpevoli e criminali e da circondare di sospetto la ricchezza; così la lotta all’evasione si trasforma in lotta di classe (Ostellino). Si tratta di due posizioni entrambe infondate anche se di ben diverso tenore: la seconda difende l’illegalità e considera un pericoloso strumento di lotta di classe la lotta all’illegalità, lotta condotta con strumenti penetranti ma ragionevoli, vale a dire relativi ad indagini in zone di alto rischio di evasione, come puntualmente confermato dalle sproporzionate reazioni. La posizione di Ostellino è totalmente priva di sostanza ed è anche totalmente illiberale, visto che sacrifica la legge a favore della ricchezza, ammessa anche se illegale (e così cade nell’involontario umorismo, visto che Balzac vedeva dietro ogni grande ricchezza un’infamia ancora maggiore, escludendo, non senza forzatura, grandi ricchezze lecite): ebbene, il valore fondamentale della legge, generale e astratta, è sempre stata considerato il vero baluardo delle libertà (“sub lege libertas”, come recita il noto brocardo latino). Ma anche la prima posizione è del tutto infondata, nel momento in cui equipara alla lotta all’illegalità il sacrificio di fondamentali diritti del lavoratore, tra cui quella al posto di lavoro contro licenziamenti ingiustificati (non contro licenziamenti “tout court”, come prospetta infondatamente l’informazione dominante, che trascura così che licenziamenti giustificati sono già adesso ammissibili); se la flessibilità lavorativa va incentivata perché è un bene per l’economia, allora occorre abbandonare modelli economici in cui l’economia si basa sul profitto di pochi, profitto che dovrebbe invece andare a vantaggio immediato del lavoro. Il collegamento potrebbe essere recuperato evidenziando che imposizioni fiscali altamente progressive, come in Italia, se effettive e quindi senza evasione fiscale, realizzano un concreto e tangibile trasferimento di ricchezza dai ceti più alti a quelli più deboli, in modo da giustificare pienamente sacrifici dei (pensionati e dei) lavoratori. Il ragionamento è serio ma non condivisibile: la redistribuzione dei redditi è fondamentale ed è di natura sociale, ma lo squilibrio del rapporto capitale/lavoro rende l’equità parziale ed angusta in quanto solo a valle di un modello in cui il fattore economico che appartiene a tutti, il lavoro, è penalizzato ed annichilito. Si ridistribuisce ricchezza formatasi in modo distruttivo. In definitiva il Governo Monti si muove in un’ottica di effettiva serietà e legalità, ma l’equità che persegue è molto pallida. Una nota conclusiva: le due posizioni, ben differenti l’una dall’altra, in quanto la linea di discrimine corre sul piano della liceità, comunque sono accomunate dal considerare la ricchezza un bene assoluto del Paese, da tutelare e promuovere, rifuggendo da ogni tentazione di ulteriori tutele dei ceti deboli; ebbene, la crisi economica ha mostrato che non piccola fetta della ricchezza privata si forma non solo in modo iniquo ma a soprattutto in modo inefficiente e con speculazioni abnormi; quindi, in opposizione al liberalismo dominante ed oltre i limiti del Governo Monti, che è meritorio ed indispensabile fino al 2013 ma resta liberista, niente criminalizzazione della ricchezza, ma suo controllo e delimitazione, questo sì, perbacco.

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