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di FRANCO PIPERNO
Non scordare il tulipano. Nella tradizione del movimento operaio, ovvero per quel marxismo diffuso che in Italia era, fino a qualche decade fa, una sorta di economia politica popolare, la crisi che attraversiamo dovrebbe essere considerata una conseguenza della sovrapproduzione: una immane stock di merce giace in stato di saturazione, invenduta; dal momento che gli unici ad avvertirne la mancanza sono quegli stessi che non hanno il denaro per comprarla. Una enorme quantità di valore di scambio privato del suo valore d’uso, attesta icasticamente cosa deve intendersi per dissipazione dell’energia corporea e mentale dell’uomo occidentale, per aumento entropico, crescita del disordine in senso ontologico, termodinamico. Gli aspetti propriamente finanziari della crisi, ancorché rivelatori della degenerazione etica alla quale conduce la moderna “auri sacra fames”, non figurano per altro tra quelli più specifici. Non sono stati gli “gnomi di Wall Street” a provocare la crisi della crescita; è stato invece il successo stesso della crescita negli ultimi venti anni, a secernere la sua crisi. Per la verità, questa crescita non ha comportato tanto un innalzamento significativo del tenore di vita della gente comune quanto una polarizzazione sociale del capitale: questo sì che è andato aumentando per concentrarsi mostruosamente. Infatti , è stata una crescita senza sviluppo, aumento vertiginoso della ricchezza astratta, puramente contabile, cifra del dominio : il Pil si gonfiava mentre la gente si sentiva peggio – ben prima della crisi, la mormorazione la faceva da padrona: da quanto tempo ormai, sui media italiani, compare ossessivamente l’epistrofe di coloro che da anni dichiarano di non riuscire a sopravvivere fino alla fine.. del mese? Si sa, dalla letteratura, che non è di sicuro la prima volta, nella storia d’Europa, che ci si confronta con le conseguenze funeste del desiderio di divenire ricchi in tutta fretta. Fin dall’origine, la formazione economico sociale nella quale ancora viviamo ha manifestato la tendenza a rendere indipendente il valor di scambio da quello d’uso, con l’affrancamento del capitale finanziario rispetto a quello più propriamente industriale – valga per tutte “la crisi del tulipano” che si abbatté sull’Europa agli albori del capitalismo. Ciò che davvero risulta inedita è la sincronicità planetaria del processo. Infatti, non era mai accaduto che il fenomeno si dispiegasse, contemporaneamente, pressoché in tutto il mondo; e questa unificazione del mercato mondiale, giova notarlo, si è resa possibile, non molto tempo fa, grazie al dissolvimento dei regimi a socialismo di stato, in primo luogo dell’Unione Sovietica. Si può dire che la difficoltà attuale è il premio velenoso che consegue alla vittoria del capitalismo sul socialismo. Divenuto sistema-mondo, il modo di produzione tramite lavoro salariato ha toccato i suoi limiti ultimi.

La tecnologia, questa vecchia talpa che continua a scavare
Ma tutto questo non comporta certo che il capitalismo sia in un declino agonico, si stia di suo congedando da noi e lungamente ci dica addio; piuttosto c’è da scommettere che, nel medio periodo, ovvero nell’arco di una generazione, non vi sia più un orizzonte che permetta una crescita continua del Pil mondiale; detto altrimenti, tra due crisi si darà un intervallo temporale, via via più corto, durante il quale si verificherà un aumento del Pil. Ma questa crescita non avrà abbastanza fiato da riassorbire la disoccupazione provocata dalla crisi e tanto meno da offrire opportunità di lavoro aggiuntive. Così, alla fine di ogni ciclo, aumenterà la forza lavoro espulsa dal processo produttivo perché le innovazioni, di prodotto o di processo, impiantate in risposta alla crisi, sono tutte a risparmio di lavoro umano. Si tratta di un effetto sistemico: la riproduzione allargata di disoccupazione provocata dal progresso tecnologico che va di pari passo con l’avanzamento della ricerca e della conoscenza tecno-scientifica in generale. Si noti, e rendiamo per inciso un omaggio al pensiero dialettico, che qui è all’opera un aspetto destinale della tecnologia che tende spontaneamente a minimizzare la fatica fisica e mentale del lavoro ripetitivo scaricandolo sulle macchine o meglio sul sistema di macchine: la macchina generale di Turing secondo il gergo degli informatici o il General Intellect nel lessico marxiano. Insomma: la disoccupazione del lavoro salariato è la conseguenza socialmente iniqua di un processo secolare di emancipazione ignara di sé: l’esodo dalla noia faticosa del lavoro ripetitivo e l’aumento del tempo sociale liberato. Nel medio periodo è prevedibile che la questione al centro dello scontro sociale non sia più l’organizzazione industriale del lavoro salariato ma la autorealizzazione umana nel tempo liberato dal lavoro. Per avere una giusta valutazione di questo scenario — che è, per altro, già qui e ora– occorrono nuove parole o almeno rinnovarne i significati. Il lavoro salariato è solo una forma della cooperazione umana: il lavoro a comando, il disporre del tempo altrui è sì tra le più efficaci, pervasive e ripugnanti forme della cooperazione, ma ne è pur sempre solo una forma. Ve n’è almeno una altra, antica, quella della” vita buona”: essa si svolge lasciando che ciascuno cerchi il suo demone, realizzi il suo destino, divenga ciò che già è. Questa seconda forma, che chiameremo “attività libera” o “agire autentico”, è assai antica, risale alla fondazione della città come tratto antropologico della specie; ed è all’opera, in qualche modo, fin da sempre anche se vive in uno stato di latenza come nel sogno-basterà che affiori nella coscienza comune perché dispieghi intera la sua potenza liberatrice.

Tempo e temporalità
La contrapposizione tra lavoro salariato e attività libera ha un significativo riverbero nella temporalità ,nel sentimento comune del mutamento e della trasformazione. La temporalità del lavoro salariato è scandita dall’interesse composto, la produzione di denaro a mezzo di denaro. Questa temporalità è posseduta dalla dittatura del futuro, la speranza superstiziosa in ciò che non è ancora avvenuto. Gli operai, così come il capitale, guardano ai risultati che il lavoro sarà capace di conseguire in un domani più o meno lontano, antepongono l’utile al buono; e non si curano dei danni che procurano nell’immediato, qui e ora, all’ambiente dentro il quale il loro lavoro viene erogato. Come osserva il Keynes, la temporalità del modo di produzione tramite lavoro salariato si proietta in una dimensione futura, una sorta d’immortalità fittizia e illusoria, dove finalmente il lavoro conseguirà il suo scopo – infatti la modalità produttiva propria al dispositivo dell’interesse composto è quella più proiettata nel futuro tra tutte le forme di cooperazione del genere umano: non ci si occupa della cagna che si ha in casa, ma dei suoi cuccioli anzi dei cuccioli dei suoi cuccioli e così via indirizzando l’attenzione verso esseri che hanno il piccolo difetto ontologico di non esistere se non, forse, quando saremo tutti morti. Qui vien meno la premessa stessa del legame politico, il principio di reciprocità: se tutti noi ci occupiamo di coloro che non sono ancor nati, che mai si curerà di noi che siamo già nati? Questa speranza senza fondamento nel futuro è un sentimento comune appropriato all’istituto dell’interesse composto, anzi calcato su di esso; per dare una idea, un aumento annuo del Pil del 7%, alla cinese grosso modo, comporta un suo triplicarsi nel medio periodo: come se macchine, strade, case, beni di consumo durevoli, protesi, farmaci, cosmetici, giornali, computer, spazzatura e così via si triplicassero nell’arco di una sola generazione. L’altra temporalità è fuori dalla dimensione saturnina, quella cronologica, dalla reificazione del tempo; essa percepisce il passato e il futuro come qualità del presente: il primo è la memoria, ciò che riconosciamo in comune, mentre il secondo racchiude tutto ciò che pur essendo presente si nasconde all’occhio della mente comune. Una siffatta temporalità si propone di cogliere l’ora e il giorno, di godere della finitezza come condizione necessaria alla perfezione: vivere una vita piena è possibile qui e ora sol che si riconosca il proprio demone e lo si accetti come destino. Per essa il mezzo non è distinto dal suo fine, giacché l’agire autentico è in se compiuto, mezzo e fine allo stesso tempo. Siamo di fronte a una temporalità che si fa valere da sempre nel nostro presente. Essa è all’opera nella cooperazione delle comunità elettive, dai foschi centri sociali alle esperienze ireniche del volontariato cattolico, passando per le sbiadite cooperative senza fini di lucro. In queste comunità, lo scambio non ha luogo tra valori equivalenti ma tra valori d’uso. Esse, magari inconsapevolmente, si sottraggono al feticcio della crescita economica; e possono riguardare con spontanea ostilità ai principi etici della nostra legalità democratica, quei principi che hanno trasformato alcuni tra i più ripugnanti desideri umani in virtù civiche da coltivare fin dall’infanzia. L’avidità, l’avarizia, l’usura, la cieca e ammaliante cupidigia del denaro, la competizione – tutto ciò appare a questa temporalità alla stregua di abitudini “tra il criminale e il patologico da affidare con un brivido agli specialisti di disturbi mentali”. Lo stesso senso comune, oltre a Keynes, ci dice che bisognerebbe afferrare questa legalità per la collottola e torcerle il collo.

Oltre la crisi
Così, mentre, per operai e capitale, la questione cruciale resta quella di come gli Stati-nazione possano innescare una nuova crescita esponenziale della produzione e dei servizi nello spazio-tempo, internazionale appunto, del mercato globale; per le comunità elettive la dimensione adeguata è quella di ritrovare il “Genius Loci”, tornare ad abitare i luoghi, rifondare la città sovrana, comunità delle comunità elettive, in una parola: la democrazia comunale. Gli uni si confrontano con l’impresa faustiana di inventare, anche quando risultano inutili o addirittura nocivi, nuovi posti di lavoro salariato che permettano la valorizzazione del capitale investito; gli altri usano il lavoro salariato come mera sorgente di reddito, tendono a ridurne la durata in quanto lavoro alienante per massimizzare il tempo libero, il tempo dell’attività libera, il tempo liberato dal lavoro: quando il principio del piacere torna a essere il criterio etico per scegliere e giudicare e ci si dà al “bel tempo”, ci si dedica a fare ciò che piace; per costoro il lavoro socialmente necessario per la riproduzione, questo male comune, si è potenzialmente ridotto, grazie al sistema delle macchine, a poche ore giornaliere. E s’indignano come davanti a un furto arrogante per l’uso della tecnologia a vantaggio della accumulazione capitalistica piuttosto che per diminuire il tempo di lavoro ripetitivo, in modo che le comunità possano vivere la buona vita, “quella dei gigli dei campi che non lavorano né filano”; e libere dall’angoscia del futuro camminano sicure lungo il sentiero che li riporta a contatto con ciò che è reale e ciò che è linguistico, dove la libertà coincide con l’ esercizio delle virtù civiche. Occorre sottolineare che le due temporalità qui prese a riferimento, come le variegate altre che non esaminiamo, non solo sono contemporaneamente presenti nella produzione e nello scambio sociale ma convivono quotidianamente nello stesso individuo – infatti, si può essere operaio Fiom e militante in un centro sociale. Questo fa sì che la “Grande Trasformazione” assuma, nella nostra epoca, l’aspetto di cozzo interiore tra sentimentalità alternative, sforzo di pensiero, esodo semantico dalle parole che costruiscono i modi comuni di rapportarsi alla natura, la natura questa prima cultura. Ecco allora che tentare insieme di strappare la gioia al futuro, liberarsi dal tempo reificato dell’attesa coincide senza residui con il processo interiore di catarsi, il purgarsi insieme dalle passioni tristi, anche queste, ahinoi, del tutto comuni. È proprio a causa della natura eminentemente simbolica di questa “grande trasformazione” – non si tratta di cambiare il mondo, ma di mutare le nostre idee sul mondo-essa ci appare più simile a uno “svelamento sapienziale” o meglio a un movimento ereticale medievale che a una rivoluzione politico-sociale di tipo moderno, più incline all’esodo che al conflitto. La violenza con parsimonia solo per difendersi dai sorprusi legali. Violenza sulle cose e non sulle persone. Non vi sono trasformazione al grado zero della violenza sociale.

Ottobre a Roma: il sasso che manda in frantumi la vetrina della banca
Sarebbe tuttavia ipocrita rimuovere il cordone ombelicale che sempre intreccia trasformazione e violenza sociale. Mentre è doveroso criticare la violenza non bisogna scordare che non v’è trasformazione del senso comune al grado zero della violenza sociale. Giacché la violenza è anche spettacolo fondativo – e, paradossalmente, questo carattere spettacolare contribuisce grandemente a ridurne il grado. Facciamo un esempio. Nei tumulti dell’ottobre romano, il gesto che lancia il sasso contro la vetrina della banca è agito da pochi; e, tuttavia, interpreta la volontà generale della moltitudine. Rompere la vetrina non è l’enunciazione di una qualche “linea politica”, che in tutta evidenza fa difetto; piuttosto è produrre l’eco, lanciare un segnale che prova l’esistenza di colui che parla, la piccola profezia che annuncia l’emersione di sentimenti, comuni sì ma radicalmente altri, per seguire i quali si è disposti a porre a rischio la libertà e l’integrità del proprio corpo. Qui la violenza ha un ruolo costitutivo, non si propone come mezzo ma come processo catartico tanto per coloro che la compiono quanto per quelli che vi assistono; rottura di paradigma, passaggio obbligato nel costituire la sovranità della moltitudine che insorge. Nel riappropriarsi della comune facoltà dell’agire violento ci si assume pubblicamente la responsabilità di questo agire; la violenza non è esercitata qui nel suo aspetto distruttivo, ma in quello comunicativo -giacché niente, come ben sapeva Dalì, passa più velocemente di bocca in bocca come le notizie e le immagini della violenza delle moltitudini, che ci ricordano la comune fragilità dei corpi. Insomma: rompere la vetrina è un gesto riprovevole, soprattutto quando appartiene a una banca; ma per dirla con Brecht: che cosa sarà mai il danno inflitto alla banca rispetto ai danni procurati dalle banche?

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