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di GIANNI CERASUOLO
Forse è per davvero uno sport da chiudere, il ciclismo. Forse siamo soltanto di fronte ad un soggetto recidivo, Riccardo Riccò, da sempre chiacchierato e pure incastrato nelle vicende del doping, quindi ogni sua ricaduta non fa notizia. Forse tutto lo sport di alto livello è una grande bufala, una mistificazione. Per ottenere vittorie e record non bastano le proprie forze. E l’aiutino, chiamiamolo così, è indispensabile per guadagnare tanti soldi da club, sponsor e televisioni. E’ come una forma di dipendenza, come assumere una droga. Così quando smetti di correre, di sudare e di faticare hai bisogno di altra roba che ti tenga su, cocaina o altre schifezze. Riccardo Riccò, 27 anni, da Sassuolo, ha rischiato di morire. L’hanno salvato per un pelo. Sabato il padre l’ha ricoverato in ospedale, l’hanno portato in terapia intensiva, codice rosso. Stava male da alcuni giorni: blocco renale, dolori all’addome, edema polmonare. Ieri si è saputo che si era autotrasfuso del sangue che aveva in frigo da una ventina di giorni. L’ha detto lui stesso ad un medico che l’’ha soccorso e il dottore ha rivelato questa confessione, fatta in presenza anche della compagna del corridore. La Procura della Repubblica di Modena ha aperto un’inchiesta; analoga iniziativa ha preso la Procura antidoping del Coni. Se la pratica di autoemotrasfusione verrà provata, Riccò verrà radiato. Era appena uscito fuori dalla bufera del Tour de France anno 2008, dove aveva vinto due tappe, ma venne beccato: si era fatto di Cera, l’Epo di ultima generazione, un veleno, una bomba micidiale che mette il turbo nel motore del tuo corpo. E poi ti ammazza. Due anni di squalifica, in seguito una piccola riduzione, il pentimento: «Voglio correre senza barare e voglio vincere il Giro» aveva detto. Nel frattempo altre nubi si addensavano sul suo capo: la sua compagna (poi scagionata alle contranalisi) e il cognato coinvolti in faccende di sostanze che ti danno lo sprint. Ci sono campioni più grandi di Riccò, uno per tutti, Basso, che sono inciampati nei farmaci che ti fanno andare a mille ma poi, una volta puniti, hanno ripreso a correre in maniera pulita. Almeno così sembra. Perché i grandi alla fine si rivelano tali e hanno più benzina dei normali atleti, pur senza ricorrere ad aiuti extra. Ma gli atleti di seconda, terza fila, o quelli con una personalità fragile, è come se non riuscissero a liberarsi del demone. Cento esorcisti non bastano. Perché quando non accetti un ruolo di comprimario, è difficile staccarti dal successo, dalle prime pagine e dalle tv che fanno servizi speciali a te dedicati. E’ una questione di testa, più che di muscoli. E dalle provette si passa ad altro. Successe persino a Marco Pantani, quel Pantadattilo, come lo chiamava Gianni Mura, un grande che aveva fatto sognare tutti coloro che si emozionano ancora quando vedono scattare su una salita un ciclista, quando lo scorgono alzarsi sui pedali e lo sospingono a volare più in alto in quello sforzo terribile e inumano. Tutti vogliamo credere che faccia tutto con le proprie gambe. Pantani è morto il giorno di San Valentino di sette anni fa, in un alberghetto di Rimini, «nudo e lasciato lì» come canta Antonello Venditti.Lo sport come droga. Inutile fingere ipocritamente che questo non possa accadere. Succede sempre più spesso. E a nulla o quasi valgono norme o leggi più severe, le stangate sportive o quelle penali. L’Italia, almeno in questo, è all’avanguardia. La nostra legislazione sportiva è attenta e severa. Molto più di quanto lo siano le leggi – sportive e non – di altri paesi europei. A cominciare dalla chiacchierata Spagna dei tanti campioni e dei molteplici successi sportivi. A cui cominciano a non credere gli stessi spagnoli.Adesso girano voci di inquietanti attività investigative dei vari Nas, Finanza e altre forze di polizia. Non passano mesi senza che in qualche parte d’Italia non ci siano operazioni che portano alla luce quintalate di prodotti dopanti indirizzati oppure usati da palestre e dai loro frequentatori. Ma questa è quella base che da sempre costituisce terreno di coltura per chi commercia con queste sostanze, seminando spesso morte, con il compiacimento e la complicità di medici e addetti ai lavori. Le voci riguardano altro: interessano lo sport di vertice, quello che ci fa spalancare gli occhi quando ci sediamo in poltrona per assistere alle prestazioni dei nostri beniamini. Perché il nostro tifo è ingenuo e becero allo stesso tempo, ipocrita e crudele. E lo sport gioca sulle nostre passioni, le asseconda, le lusinga, le stimola. Ha detto il presidente della Federciclismo, Di Rocco: «E’ meglio che Riccò lasci il ciclismo». Giusto. Ma il problema non è soltanto Riccò. E’ piuttosto l’esasperazione dello sport che ha portato all’accentuarsi di questi fenomeni degenerativi. Un cancro con metastasi, ormai inguaribile. Occorrerebbe forse, per invertire la rotta, una rivoluzione culturale e di costume. Servono, ad esempio, dei genitori che non spingano i figli a vincere a tutti i costi, e quindi a imbottirli di ogni cosa, fin da quando come allievi inforcano una bicicletta o tirano qualche calcio ad un pallone. Serve, ancora, che crolli il muro di omertà che circonda tante altre discipline sportive, anche quelle che sembrano immacolate e pure come un giglio.Prendete il calcio: partite su partite, anche tre in una settimana con ritmi frenetici e gare tirate. Muscolature paurose, fisici indistruttibili: tutto lavoro in palestra o allenamenti da “Collina del disonore”?Meditate, gente, meditate.

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