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di MICHELE ALBANESE
Salviamo il porto di Gioia Tauro. Può sembrare un eufemismo oggi, dopo fiumi di inchiostro e di parole che si sono scritti e dette in Calabria, ma non lo è. Tante volte sono state pronunciate quelle parole ma mai come questa volta riassumono un significato e un valore enorme per questa regione. Salviamo il porto di Gioia Tauro non solo per il lavoro che dà, ma soprattutto perchè grazie a esso la Calabria si è aperta al mondo intero. Perché grazie a quelle navi giramondo, questa terra intrisa solo di ’ndrangheta nella quale la libertà è stata spesso un optional incarnata per lo più come slogan buono per tutte le stagioni, Gioia Tauro è stata conosciuta in tutti gli angoli produttivi dei cinque continenti dall’Australia, al Sud America, dal Canada a Singapore. Grazie a quelle navi cariche di ogni tipologia di merce la Calabria è stata riposizionata al centro delle rotte del Mediterraneo, proprio come avveniva 2500 anni fa quando i greci la resero, questa terra Magna. Dopo tre lustri questo scalo nato quasi per caso dopo i fallimenti della siderurgia e strappato al carbone che avrebbe dovuto coprire di cenere interi paesi e contrade della Piana rischia di chiudere. Attenzione perché è così. Chi mastica un po’ di conoscenza dei meccanismi farraginosi del mercato e dello shipping sa che il rischio che si corre è questo. Altro che balle. Rischia di chiudere perché non ha protettori nelle grandi lobby economiche e politiche che segnano i destini di intere generazioni e non ha punti di riferimento nelle istituzioni italiane che invece brigano a potenziare aree geografiche sempre più ricche. Rischia di chiudere perché la Calabria potrebbe non reagire come dovrebbe, assuefatta com’è dalla rassegnazione dei vinti. “Nella guerra tra porti e navi – disse qualche tempo fa Cecilia Battistello, presidente di Contship Italia – vincono le navi perché queste ultime, a differenza dei porti, hanno il timone e possono dirigere le loro prue verso scali più convenienti”. Gioia Tauro è stato conveniente fino a qualche anno fa, oggi non lo è più e non perché non ha infrastrutture adeguate, anzi nel Mediterraneo non ha eguali per profondità di fondali, per banchine, spazi ma anche per la professionalità di tanti , tantissimi giovani portuali che hanno sacrificato le loro “schiene” sulle gru e sui carrelli. Non è più conveniente perché il mercato, quello delle lobby che contano, ha deciso così. La globalizzazione favorisce la decolalizzazione sentenziarono tempo fa gli economisti. E ciò sta avvenendo a Gioia Tauro. Si decolalizza non solo per interessi ma anche per strani e agghiaccianti calcoli del potere economico e bancario che vuole guadagnare sempre più sulla pelle dei più deboli. Proprio come è avvenuto nei paesi africani sferzati dalle proteste di piazza dei mesi scorsi. Attenzione se chiude il porto il vento di quelle proteste che hanno devastato quei paesi potrebbe arrivare anche nel nostro paese nel quale nessuno sembra sentire il grido di rabbia dei lavoratori chimici, siderurgici o dei pastori della Sardegna e presto forse dei portuali di Gioia Tauro. Attenzione se il porto chiude non c’è sbocco per oltre tremila persone che adesso lì vi lavorano. Uomini che hanno un’età media di 40 anni e che non saprebbero come sfamare le loro famiglie. Salviamo il porto di Gioia Tauro anche se dentro vi è l’attenzione della ‘ndrangheta. Facciamo di tutto per cacciarla fuori dalla banchine perché ha già divorato l’agrumicoltura, l’olivicoltura della Piana affamando decine di migliaia di uomini e donne, ha distrutto il terziario imponendo il pizzo ed ha reso gli uomini di questo territorio succubi e incapaci di indignarsi anche grazie ad una politica spesso servile a essa. Salviamo il porto di Gioia Tauro per salvare la Calabria e il Mezzogiorno d’Italia.

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