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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
In queste settimane ha suscitato un gran clamore, non privo di declamazioni vittimistiche, la pubblicazione presso Rubbettino di un antico reportage di Giorgio Bocca sulla Calabria con una introduzione di Eugenio Scalfari. Alla retorica del lamento è stata contrapposta l’esaltazione, non meno retorica, del Bocca partigiano, convinto militante nella Resistenza al nazifascismo. Confesso che non ho simpatia per il personaggio Bocca, ma ritengo che l’editore di Soveria Mannelli ha fatto benissimo a dar vita a una collana dedicata al viaggio in Calabria, affidandone la cura a uno studioso dall’acuta intelligenza e dal gusto finissimo quale Vittorio Cappelli. La Collana ha pubblicano sinora quaranta volumi e continuerà efficacemente a offrirci la visione che della nostra regione hanno avuto nel tempo viaggiatori, studiosi, intellettuali, giornalisti, italiani e stranieri, che hanno rivolto a essa la loro attenzione, la loro volontà indagatrice. La storia di una società, di un’area si costruisce anche delineando una storia degli sguardi rivolti a esse, a prescindere da qualsiasi forma di condivisione o di rigetto, assumendo ognuno di tali sguardi come occasione per un’analisi della nostra realtà, per un’auto analisi non meno necessaria. Bene ha fatto Rubbettino anche ripubblicando qualche settimana fa l’opera di Leonida Rèpaci, “Calabria grande e amara”, apparsa per la prima volta nel 1964 e riedita dallo stesso editore calabrese nel 2002. Si tratta infatti di un’opera emblematica per intendere il tipo di sguardo che lo scrittore di Palmi rivolse alla sua terra e ad alcune delle modalità culturali che la caratterizzano. “Calabria grande e amara”, e sia detto senza enfasi – senza farsi cioè condizionare più di tanto dall’enfasi del discorso di Rèpaci e dalla sua personalità di narratore e di intellettuale propenso a forme in qualche modo declamatorie – costituisce un gigantesco affresco sulla Calabria, sulla sua storia, sulle sue caratteristiche, sui suoi luoghi, sui suoi personaggi illustri od oscuri, sulle sue modalità culturali, su molte vicende esistenziali dello scrittore palmese puntualmente riportate nel suo inestricabile rapporto con la Calabria. Non mi riferisco tanto al celebre brano “Quando fu il giorno della Calabria.”, che al di là della sua suggestione narrativa, appare oggi notevolmente usurato dall’eccesso di uso fatto in un ambito regionale, quanto al complesso dell’opera che si dispiega per trecentottanta pagine densissime di dati storici, considerazioni critiche, aneddoti significativi per intendere una mentalità, eventi collettivi o individuali, nostalgie e speranze, delusioni e impegni. Un rapporto sulla civiltà calabrese: è questo il senso dell’opera di Leonida Rèpaci ed è lo stesso scrittore a dichiararlo, espressamente: il mio “rapporto” sulla civiltà calabrese vuole essere un’affettuosa convalida, da figlio a madre, da fratello a fratelli, di ciò che di grande e di meglio può vantare il popolo calabrese nella sua storia millenaria. Questa convalida investe il corpo e l’anima, il passato e il presente. “La Civiltà calabrese nel tempo” è un viaggio estremamente articolato pur nella necessaria essenzialità attraverso la storia della regione e la delineazione di alcune tra le sue figure più rappresentative. Sono pagine, dense della fierezza di sentirsi calabresi da trasmettere a quanti, calabresi, possono interiorizzare le “ragioni” di una inferiorità attribuita con “naturale” arroganza. In Rèpaci c’è la piena consapevolezza che la cultura è sedimentazione storica delle elaborazioni via via sviluppatesi nel tempo e che le diverse forme si possono inabissare con il fluire del tempo ma non sparire del tutto dalla storia come se non fossero mai state. È una delle convinzioni basilari nella riflessione delle scienze sociali; la si è voluta richiamare in questa sede a dimostrazione della forte sensibilità antropologica dello scrittore calabrese. Della cultura tradizionale della nostra regione Rèpaci delinea tratti rilevanti, atti a intenderne spessore, significati, funzioni. Così, Ad esempio, viene sottolineato il pessimismo del calabrese, con la sua radicale diffidenza verso tutti. Che la gastronomia sia parte integrante di una cultura è ormai concetto acquisito e la letteratura specifica, da quella storico-letteraria a quello demo-antropologica, è vastissima e di notevole spessore. Le ricerche di Massimo Montanari, come quelle di Ottavio Cavalcanti, Vito Teti e numerosi altri hanno contribuito ad ampliare tale specifico settore di studi, per il quale è facile prevedere una sempre maggiore rilevanza. In questo volume la cucina è presente, sia attraverso la testimonianza personale dello scrittore, che attraverso l’annotazione, apparentemente più oggettiva del cronista. Non si intende in alcun modo acquisire nelle schiere, peraltro esigue, dell’antropologia italiana Leonida Rèpaci, che sarebbe operazione illegittima; ogni opera va letta per quello che è ed esaminata tenendo conto della specificità del suo linguaggio. Altra cosa invece è sottolineare come ogni opera possa essere esaminata da una molteplicità di punti di vista. Anzitutto, ovviamente, da quello, tecnico-specialistico, proprio del settore nel quale essa è immediatamente collocabile; così un quadro o una scultura saranno in prima istanza indagabili dagli storici dell’arte, una sinfonia dai musicologi, un’opera narrativa o drammaturgica dagli storici della letteratura, dagli studiosi di teatro, e così via. Ma – e dovrebbe essere ovvio ribadirlo – nessun punto di vista può essere esaustivo, concorrendo tutti, ognuno con la propria strumentazione concettuale e metodologica, alla comprensione antropologica, tesa a mettere a fuoco i valori e i temi culturali, gli universi simbolici e i modelli di comportamento dei diversi personaggi, che a loro volta rinviano alla specifica personalità dell’autore e alla temperie culturale di cui egli stesso fu comunque espressione, organicamente collegato o in contrasto con esso a sottolineare la fondatezza delle osservazioni relative a tratti culturali della società della quale si discorre. Legittima, dunque, una lettura antropologica dell’opera di Rèpaci, sia di quella narrativa che di quella di tipo saggistico; legittimo sostenere che lo scrittore di Palmi abbia una notevole sensibilità antropologica, atta a cogliere aspetti essenziali della cultura calabrese, nell’ampiezza delle sue articolazioni, e a rappresentarli con singolare e efficacia. Ne è testimonianza, fra l’altro, il ricorso ai canti popolari; vedi, ad esempio, la “Marcia dei braccianti di Melissa”; vedi il frequente ricorso a espressioni dialettali o ad arguzie paesane. Da qui nasce, fra l’altro, il riconoscimento dell’importanza dell’opera di chi i canti popolari e le altre testimonianze della cultura folklorica ha raccolto con estremo rigore e con impegno pluridecennale. «Eppure la letteratura dialettale calabrese è piena di canti bellissimi in cui il dispetto si alterna all’invocazione, la minaccia della vendetta al giuramento di fedeltà, la lode carnale all’invettiva. Sono canti che il Lombardi Satriani ha raccolto e che costituiscono uno dei filoni d’oro della lirica popolare italiana». Questa attenzione alla cultura folklorica calabrese e ai suoi indagatori è presente anche nel Rèpaci presidente del Viareggio. Nell’edizione del 1966, anno della morte di Raffaele Lombardi Satriani, Rèpaci dà un esplicito riconoscimento del folklorista scomparso ricordandone la figura; in quella del 1982, il premio per la saggistica viene assegnato a “Il ponte di San Giacomo” di Mariano Meligrana e di chi scrive (significativamente, nell’edizione del 1959 analogo riconoscimento era stato dato a “Morte e pianto rituale nel mondo antico” di Ernesto de Martino). L’universo che Rèpaci raffigura non è chiuso, né vi è in lui compiacimento nel presentare una società “arcaica”, immobile in una sua astorica fissità. Egli si impegna invece, a cogliere eventuali segnali di mutamento. A titolo esemplificativo, è presente in questo volume, come ne “La storia dei fratelli Rupe”, l’epopea dei braccianti di Melissa, tragedia della storia contadina, segno visibile di una violenza che non arretrò dinanzi al delitto pur di affermare comunque il diritto di proprietà, la sua assoluta intangibilità. Sono presenti in quest’opera numerosi aneddoti, dettagli, spunti problematici, che solleciterebbero ulteriori considerazione, ma che comunque sono utili per intendere la realtà calabrese di quegli anni. Molte notazioni, apparentemente minute, restituiscono il clima di un’epoca, la durezza dello scontro sociale e politico e testimoniano la decodifica paesana dei messaggio politico – culturali. Attraverso le pagine di “Calabria grande e amara” si snoda una galleria di personaggi che, ognuno con la propria cifra, hanno marcato la vita della società calabrese o, in particolare, quella di Palmi conferendole peculiarità. Emergono così in tutta chiarezza di contorni: Francesco Cilea, Francesco Carbone, sindaco socialista di Palmi; Michele Guerrisi, Giuseppe Rito scultori; Domenico Antonia Cardone, filosofo tra i designati del Nobel della pace; Peppe Rèpaci, Ciccio Parisi, Canineri, soprannome del barbiere Fortunato Topa noto e temuto a Palmi, per la sua straordinaria capacità e per la sua voce tonante, simile al latrato del cane di un tal Neri, descritti tutti nei tratti essenziali della loro opera e della loro personalità, con un acume, e con affetto e una solidarietà profonda che rivelano la trama dei sentimenti che lo scrittore di Palmi intrattenne con la propria terra. Pantheon paesano di una Calabria e di una Palmi alle quali Rèpaci non risparmi staffilate, i cui “vizi” e radicali difetti non vengono in alcun modo taciuti, come non vengono omessi slanci e generosità, capacità di sacrificio e di una compartecipazione profonda all’umano patire. È un universo paesano incline, fra l’altro, alla derisione allo scherzo collettivo, spesso spietato, anche se tale spietatezza è mascherata dalla dimensione “scherzosa”, appunto, e dal tema ideologico che afferma “che bisogna stare allo scherzo”. Se volessimo trovare una cifra complessiva per quest’opera per molti versi magmatica, potremmo rifarci all’immagine dell’immortale Pietà. È tale immagine, infatti, che Rèpaci utilizza rievocando un incontro con una vecchia contadina che alla frase dello scrittore che motivare il suo turbamento le dice che c’è la guerra che questa volta non si salva “nessuno”, “ e lei, cullando il Figlio invisibile tra le braccia «[.]: O carni vattiàta, amàra tia». È una pietà che conferisce allo sguardo di Leonida Rèpaci – che lo scrittore rivolge alla sua terra e a gente della quale si considera organica parte – lucentezza e umana, profonda partecipazione. È questa solidarietà radicale con l’umano che conferisce a “Calabria grande e amara” un’estrema vitalità, per cui essa merita di essere ricordata o conosciuta , comunque sottratta da quell’oblio che sembra aver colpito lo scrittore di Palmi. Ripubblicatal’operadelloscrittorepalmese Un enorme affresco sulla regionee la suastoria Regione grande e amara, il libro Emblema dello sguardo che lo scrittore di Palmi rivolse alla sua terra.

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