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«UNA tragedia infinita che si consuma nell’indifferenza delle cancellerie occidentali e dell’opinione pubblica internazionale». Così scriveva prima di partire per la Siria Amedeo Ricucci, il giornalista calabrese, inviato Rai, rapito insieme ad altri tre componenti della troupe che avrebbe dovuto produrre un documentario sperimentale. 

Sul suo blog, Ricucci lo spiega con queste parole: «“Silenzio, si muore”, primo esperimento RAI (e italiano) di giornalismo partecipativo. Dal 1° al 15 aprile sarò di nuovo in Siria, a decidere questa volta il mio percorso di viaggio, le notizie da seguire e le storie da raccontare, sarà un gruppo di studenti di San Lazzaro di Savena, collegati costantemente con me via Skype. E’ un gruppo che ha già avuto modo di seguire il lavoro che noi di “La Storia siamo noi” abbiamo fatto nei mesi scorsi ad Aleppo con“Siria 2.0″  e sono ragazzi magnifici, da cui mi farò guidare con piacere, certo che i loro consigli, dubbi ed emozioni possano essermi altrettanto utili di quelli che può darmi un collega o il mio direttore». Ma chiariva pure: «Non sarà un video-gioco, attenzione. Sarà un modo per portarli con me, tutti e 20, grazie a una tecnologia che ormai annulla qualsiasi distanza. E sono certo che sarà un modo per raccontare la guerra in maniera diversa e, spero, più coinvolgente».

Il giornalista Rai arrivato da Cetraro, in provincia di Cosenza, la situazione siriana la conosce bene e l’ha già raccontata in diversi reportage. (LEGGI IL SUO PROFILO e GUARDA UN SUO SERVIZIO) «Raccontarla andando sul posto non è facile – scrive -, come dimostra l’alto tributo di sangue già pagato dai giornalisti e dagli operatori dell’informazione che in questi due anni hanno provato a farlo. E poi c’è il rischio dell’effetto-assuefazione, che consiglia di non esagerare con le notizie, le foto o le immagini dai fronti di guerra per non turbare troppo i sensi e le coscienze delle famigliole riunite per cena nel tinello di casa. Tutto vero. Forse, però, l’indifferenza è figlia anche della nostra incapacità di raccontare la tragedia siriana, coinvolgendo di più e meglio il nostro pubblico, rendendolo cioè partecipe di quella tragedia. Ed è una cosa che si può fare, con le tecnologie che abbiamo a disposizione. Anzi, è una cosa che si deve fare, se si crede nel dovere della testimonianza e nel diritto all’informazione». 

 

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