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UNA calibro 9. «Nuova». Proprio come quella ha ucciso Donato Abruzzese. Lui, Dorino Stefanutti, ha ammesso di aver sparato ma soltanto dopo aver preso l’arma a un amico della vittima. Eppure un pentito in tempi non sospetti ha detto di avergliene vista una identica in tutto e per tutto nascosta a casa sua.
Gli investigatori della mobile di Potenza hanno chiesto al pm Francesco Basentini di mostrare l’immagine dell’arma utilizzata nell’omicidio di via Parigi al vecchio boss dei basilischi Antonio Cossidente. L’ex padrino della quinta mafia potrebbe aiutare a chiarire uno degli aspetti ancora misteriosi della sparatoria che si è scatenata all’una del mattino dello scorso 29 aprile.
Infatti nella sua confessione Stefanutti ha insistito sulla tesi della legittima difesa anche se almeno due testimoni hanno smentito la sua versione: la moglie di Abruzzese e l’amico a cui lui dice di aver tolto la pistola. Inoltre l’ex pugile ha raccontato di averla gettata via ma quando sono arrivati gli agenti del 113 non l’avrebbero trovata.  A nasconderla era stato sempre l’amico di Abruzzese che a distanza di qualche ora ha cambiato idea indicando il posto dove l’aveva messa assieme alle altre due che hanno sparato quella sera: una 6,35 e un revolver 10,35 con una macchia di sangue sulla canna.
Chiaro che con queste premesse il timore degli investigatori è stato subito quello di non riuscire a dimostrare chi portasse quale arma dato che erano state manipolate. Per questo è stata disposta una serie di accertamenti al gabinetto di polizia scientifica di Bari sulle impronte digitali e le eventuali tracce di Dna presenti soprattutto all’interno dove uno che raccoglie una pistola per nasconderla non può arrivare. Se lì, per esempio sul caricatore della calibro 9, dovesse venir fuori qualcosa di riconducibile a Stefanutti sarebbe più difficile per lui sostenere di averla presa sulla scena del delitto e troverebbe conferma il racconto della moglie di Abruzzese che ha detto di averlo visto dal balcone con un’arma importante in pugno mentre il marito scendeva per incontrarlo. In caso contrario, o peggio ancora se dovesse saltare fuori una traccia riconducibile all’amico di Abruzzese, sarebbe la versione di quest’ultimo, considerato un testimone chiave dagli inquirenti, a uscirne incrinata forse in maniera irreparabile.
Per questo le parole di Cossidente, l’ex boss della calciopoli rossoblu e del misterioso omicidio Gianfredi, potrebbero assumere un significato particolare. «Lui, a casa lui nella casa è… lui, quando sono stato io aveva la calibro 9. Ce l’aveva a portata di mano». Così il verbale del 13 ottobre del 2010 che è già finito tra gli atti del fascicolo sull’omicidio del “presidente” come veniva chiamato Abruzzese. «Lui» è proprio Dorino Stefanutti, che a Cossidente avrebbe confessato anche un altro omicidio, quello di Tiziano Fusilli, nel 1987. Ma perché fosse condannato per questo le parole del boss pentito non sono bastate e soltanto a febbraio per «lui» era arrivata l’assoluzione.

UNA calibro 9. «Nuova». Proprio come quella ha ucciso Donato Abruzzese. Lui, Dorino Stefanutti, ha ammesso di aver sparato ma soltanto dopo aver preso l’arma a un amico della vittima. Eppure un pentito in tempi non sospetti ha detto di avergliene vista una identica in tutto e per tutto nascosta a casa sua.
Gli investigatori della mobile di Potenza hanno chiesto al pm Francesco Basentini di mostrare l’immagine dell’arma utilizzata nell’omicidio di via Parigi al vecchio boss dei basilischi Antonio Cossidente. L’ex padrino della quinta mafia potrebbe aiutare a chiarire uno degli aspetti ancora misteriosi della sparatoria che si è scatenata all’una del mattino dello scorso 29 aprile.

Infatti nella sua confessione Stefanutti ha insistito sulla tesi della legittima difesa anche se almeno due testimoni hanno smentito la sua versione: la moglie di Abruzzese e l’amico a cui lui dice di aver tolto la pistola. Inoltre l’ex pugile ha raccontato di averla gettata via ma quando sono arrivati gli agenti del 113 non l’avrebbero trovata.  A nasconderla era stato sempre l’amico di Abruzzese che a distanza di qualche ora ha cambiato idea indicando il posto dove l’aveva messa assieme alle altre due che hanno sparato quella sera: una 6,35 e un revolver 10,35 con una macchia di sangue sulla canna.
Chiaro che con queste premesse il timore degli investigatori è stato subito quello di non riuscire a dimostrare chi portasse quale arma dato che erano state manipolate. Per questo è stata disposta una serie di accertamenti al gabinetto di polizia scientifica di Bari sulle impronte digitali e le eventuali tracce di Dna presenti soprattutto all’interno dove uno che raccoglie una pistola per nasconderla non può arrivare. 
Se lì, per esempio sul caricatore della calibro 9, dovesse venir fuori qualcosa di riconducibile a Stefanutti sarebbe più difficile per lui sostenere di averla presa sulla scena del delitto e troverebbe conferma il racconto della moglie di Abruzzese che ha detto di averlo visto dal balcone con un’arma importante in pugno mentre il marito scendeva per incontrarlo. In caso contrario, o peggio ancora se dovesse saltare fuori una traccia riconducibile all’amico di Abruzzese, sarebbe la versione di quest’ultimo, considerato un testimone chiave dagli inquirenti, a uscirne incrinata forse in maniera irreparabile.
Per questo le parole di Cossidente, l’ex boss della calciopoli rossoblu e del misterioso omicidio Gianfredi, potrebbero assumere un significato particolare. «Lui, a casa lui nella casa è… lui, quando sono stato io aveva la calibro 9. Ce l’aveva a portata di mano». Così il verbale del 13 ottobre del 2010 che è già finito tra gli atti del fascicolo sull’omicidio del “presidente” come veniva chiamato Abruzzese. «Lui» è proprio Dorino Stefanutti, che a Cossidente avrebbe confessato anche un altro omicidio, quello di Tiziano Fusilli, nel 1987. Ma perché fosse condannato per questo le parole del boss pentito non sono bastate e soltanto a febbraio per «lui» era arrivata l’assoluzione.
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