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di PARIDE LEPORACE

Tira fuori dal bagagliaio una damigiana di venti litri di vino. Gli altri dispongono un pane tagliato con l’affettatrice. Salame lucano. Pizza da forno. Bicchieri di plastica in quantità. Al cancello in fondo le voci nel microfono dello sciopero dei metalmeccanici indetto contro il referendum di Mirafiori e il manager in maglione.
«Prendete del vino». Con gentilezza familiare l’operaio si rivolge al cronista infreddolito che disperava di trovare ristoro nella landa di San Nicola Di Melfi dove sfrecciano lunghi tir con la scritta “Just in time for automotive”.
La fabbrica imponente si staglia adagiata sulla terra che vide i braccianti conquistare dignità e tempo.
«Lo fate voi il vino? Siete un operaio contadino?». Si lo fa lui il vino. Il compagno operaio lavora a Potenza ai ponteggi della fabbrica di Emma di ferro, lei che pure a Marchionne deve dar conto. Ha portato il vino della vigna di don Rocco, quello di contrada Ruota, dal sapore buono nei bicchieri di plastica senza darsi il tono da Wine bar. Operai. Tute blu. Non è stato un gran sciopero. Solo l’umido è quello del Nord. La combattività è bassa, il morale da ritirata. Si avvicinano compagne dei Cobas, tarantini di vecchia data, tepore solidale. Il vino scioglie la chiacchiera. E’ dura. Durissima. Qui sui tempi e le pause si è dato. Cosa vogliono ancora? Ma l’attacco padronale è dietro l’angolo, l’aspettano e non vogliono mollare. Tessera Fiom e presenza in assemblea. Sul turno e nelle linee hanno maturato la consapevolezza dei diritti. Il ristoro militante accoglie chi si allontana dal comizio. Forse sciopero nel XXI secolo significa anche condividere pane e vino.
Alle 9, quando il pullmino della Fiom, sotto una pioggerellina fastidiosa come una frase di Sacconi, inizia a montare il gazebo lo scenario è desolante. Sei pensionati dello Spi sotto una pensilina sembrano aspettare il bus più che portare solidarietà. Arrivano le prime operaie alla spicciolata e cercano riparo: “Buongiorno, se può essere ancora buongiorno”. Due metalmeccanici conversano e parlano dei figli. Sono ventenni, universitari e non guardano telegiornali e non leggono quotidiani: “Cciù dicu sempre, cerca i capì. E’ ‘mportante, tari fa n’idea. Ma nnuncapiscia”.
La porta si vivacizza in qualche modo. Uno striscione recita: “Senza diritti siamo solo schiavi. Fiom”. E’ lontana piazza Maggiore con 50000 persone a reclamare la centralità della questione lavoro rispetto alle puttane del sultano. Sono molti di meno a Melfi ma anche loro come quelli del Nord sono l’avanguardia culturale di un Paese a bassa democrazia. Baluardo contro la forma sociale del consenso. Difficilmente fermeranno il dominio ma non vogliono darla vinta. “Mi cadano le braccia quando sento quelli del Pd dire che quello che dice Marchionne forse è giusto”. Piccole formazione estremiste, quelle che un tempo sarebbero state emerginate, si ricompattano attorno alla Fiom. Bisogna stare uniti. Dall’altoparlante una “Bella ciao” d’antan si diffonde nel grigio panorama.Una bandiera di Idv viene issata sul gazebo. «In Germania lavorano 35 ore e prendono più di noi”: La compilation Fiom propone il Bennato dei briganti: “E u piemuntisi avimme caccià”. Quanti Ninco Nanco moderni ci vorrebbero per sconfiggere Marchionne? Le tute blu in lotta si caratterizzano oggi per la felpa con la scritta Fiom. La indossa anche il delegato Barozzino, personalizzazione della lotta che resiste. «Giornata inclemente guagliò» esclama un altro dirigente e forse non stramaledice solo il tempo e il governo. Arriva il segretario Pepe. Gli mostro la dichiarazione del segretario regionale del Pd, il giovane moroteo Speranza. Pepe, di nome e di parola, sul taccuino mi fa trascrivere: “Se il Pd molla è un problema del Pd. Fanno una discussione surreale. Come quella di Torino. Non si rendono conto che è in corso un assalto alla libertà di rappresentanza. Hanno una linea ondivaga mentre è in gioco la democrazia all’interno delle fabbriche”. L’altoparlante propone “Fischia il vento” ma chi urla non è la bufera ma il delegato Fiom che annuncia l’astensione del sessanta per cento degli operai e il blocco completo della linea. Il piazzale si anima e si popola. Lavoratori della conoscenza, esponenti della Sel e dei tanti partitini rossi che animano la sinistra ormai extraparlamentare. Arriva il senatore Belisario con i volantini sotto braccio a marcare che il dipietrismo oggi sta ai cancelli delle fabbriche. Il Pd lucano? «Deve sciogliere il nodo» e sorride ironico.
La pioggia si dirada. Iniziano i comizi. La barriera di classe davanti alla Sata assume un fronte compatto e dignitoso. Un ricercatore universitario di geometria e il suo compagno studente sono venuti per fare un intervento. Le loro speranze sono le lotte di dicembre. Mi sembrano coraggiosi mohicani che combattono contro i carri armati.
«Dentro la fabbrica c’è paura. La colpa è nostra, non del sindacato. Siamo noi operai a dover difendere i diritti. Il sindacato propone e organizza”. Nunzia è di Ripacandida. Operaia da 17 anni. Il marito pure. Lavorano su turni diversi per stare con i figli. La famiglia sta insieme solo la domenica. “Quelli che non scioperano s’illudono che da noi non succederà nulla”. A Melfi molti operai hanno un doppio lavoro. In agricoltura e in piccole attività. L’assenteismo è figlio anche di questo problema. «Si mettessero in malattia adesso che tra poco hanno finito». In un capannello mi dicono che i sindacalisti collaborazionisti “per fare bella figura con il padrone” hanno sparso la voce che chi sciopera verrà colpito dai provvedimenti dai capi.
Sul palchetto sale la responsabile dell’ufficio internazionale della Fiom che chiude la manifestazione. La Lucania forse le sembra lontana più dell’Illinois. Ritorna la pioggia. La damigiana del vino di don Rocco è quasi vuota. Si dubita della Cgil. I fischi alla Camusso a Bologna non sono nati dal nulla. «Che dobbiamo dargli ancora ai padroni?». Brindano gli operai che hanno rincuorato l’animo e la solidarietà del primo sciopero dei metalmeccanici del 2010. Molti vorrebbero lo sciopero generale. Sarà difficile costruirlo ma chi si riconosce nella Fiom non intende arretrare di un passo. Mi rimetto nell’auto costruita fuori dall’Italia e ritorno a Potenza. Ripenso ad un passo di Vittorini da “Conversazione in Sicilia” e lo faccio mio per la chiusa di questa cronaca: “Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare, nell’astrazione di quelle folle massacrate, e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Basilicata, alle montagne, nel lamento del mio piffero interno e in qualcosa che poteva anche non essere una così scura quiete e una così sorda non speranza”

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