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POTENZA – Un dato «particolarissimo che in astratto poteva sembrare trascurabile, ma che invece è decisivo per l’ulteriore rafforzamento della credibilità e attendibilità di D’Amato».

E’ la piccola auto rossa descritta dal killer reo confesso dei coniugi Gianfredi, 13 anni dopo, e ritrovata dagli inquirenti tra le foto dell’epoca, il riscontro fondamentale dell’accusa ai vertici del clan dei basilischi per l’agguato di Parco Aurora, a Potenza del 27 aprile del 1997.

Lo scrivono i giudici del Tribunale del Riesame di Salerno che giusto un mese fa hanno respinto i ricorsi del 59enne Gino “faccia d’angelo” Cosentino, del 50enne pignolese Saverio Riviezzi e del 51enne potentino Carmine Campanella, arrestati lo scorso 17 febbraio per ordine del gip Maria Zambrano.

Il Riesame ha confermato l’attendibilità delle dichiarazioni di Alessandro D’Amato, 43enne melfitano reo confesso anche di altri 4 omicidi, e del 49enne potentinio Antonio Cossidente, l’ex boss della calciopoli rossoblu e del processo sui rapporti tra mafia e politica nel capoluogo.

IL SOSPETTO

Rispetto all’ipotesi, avanzata dai legali degli indagati, che i due collaboratori di giustizia abbiano concordato le versioni, i magistrati sono stati tranchant. L’indizio più importante della loro sincerità starebbe nelle «fisiologiche discrasie» tra quanto affermato, considerato «il decorso del tempo dai fatti». Mentre «in caso di previo concerto sul punto le dichiarazioni dei collaboratori sarebbero state con alta probabilità perfettamente sovrapponibili». 

D’altra parte evidenziano in maniera perentoria che «non risulta in atti neppure il principale dato indicativo di tale rischio quale ad esempio la scelta di un comune difensore». Una circostanza che aveva già destato perplessità quando si è saputo del pentimento di D’Amato, a settembre del 2010, ma non è mai stata smentita nemmeno dai diretti interessati. In più spiegano che Cossidente avrebbe saputo del pentimento di D’Amato soltanto dopo la sua scelta di collaborare con la giustizia, che è avvenuta a ottobre del 2010, mentre i giornali ne parlavano da più di 2 settimane.

L’EX PENTITO

Il collegio presieduto da Gaetano Sgroia ha confermato le valutazioni del gip sull’inattendibilità di Cosentino, considerato il fondatore della quinta mafia e collaboratore di giustizia da settembre del 2007 a maggio dell’anno scorso, che si è sempre dichiarato estraneo al duplice omicidio accusando Antonio Cossidente. Piuttosto, sarebbe è «altamente probabile» che sia stato proprio lui ad aver «dato un mandato omicidiario ad Antonio Cossidente – che era in uscita dal carcere per fine pena dopo un periodo di comune detenzione – per strutturare compattare e favorire la decisiva crescita e imposizione del clan dei basilischi».

Quanto al valore del confronto effettuato tra i due si sostiene che «il portare livore dopo anni per un’affiliazione – coeva all’omicidio – al clan dei basilischi eseguita senza il suo assenso (di Cosentino, ndr) ed autorizzazione rende vieppiù altamente improbabile che non poteva ch partire da Cosentino – come riferiscono Cossidente e D’Amato – l’ideazione del delitto in esame posta l’assoluta rilevanza dell’azione criminale rispetto a una mera “copiatura” e l’interesse spasmodico ad ogni attività del gruppo mostrata, appunto, da Cosentino».

IL RUOLO DI RIVIEZZI

Sulle contraddizioni nelle parole di Cossidente a proposito del ruolo di Riviezzi il Riesame sottolinea l’importanza di un elemento emerso dalle dichiarazioni spontanee in aula dell’ex pugile pignolese. Si tratta del rapporto di «comparaggio» tra i due, «perfezionato in carcere mediante battesimo del figlio di Riviezzi a cui proprio Cossidente aveva fatto da “compare”». Motivo per cui Cossidente «all’inizio della collaborazione» avrebbe «cercato semplicemente di tenere fuori il proprio amico Riviezzi al quale era legato da un “comparaggio” che come è noto assume particolare importanza nei piccoli centri (qual’è il piccolo paese di Pignola in Basilicata)». In altre parole niente di più di «un’iniziale ritrosia» che «dopo appena 5 giorni» dal primo verbale con gli inquirenti della Dda ha ceduto alla constatazione che «la collaborazione con l’autorità giudiziaria non avrebbe consentito, per essere portata regolamente a termine, differenziazioni di sorta basate sui diversi rilievi affettivi dei protagonisti delle vicende delittuose in esame».

LA MINI ROSSA

Tra i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti, e in particolare di D’Amato, i magistrati salernitani si soffermano su una piccola Mini rossa della Innocenti parcheggiata a pochi metri dalla scena del delitto e fotografata dagli agenti che hanno effettuato i rilievi, la mattina dopo l’agguato. D’Amato aveva parlato proprio di un auto così che era arrivata sul posto mentre il defunto Claudio Lisanti, indicato come il secondo sicario entrato in azione, dava il colpo di grazia a Gianfredi e la moglie. Una coincidenza difficile da immaginare davvero del tutto casuale.

IL MOVENTE

«L’omicidio si colloca nell’alveo di una rinforzata genesi del gruppo, di una sua strutturazione ulteriore finalizzata alla completa egemonia nella città di Potenza». Conclude il Tribunale della libertà. L’obiettivo era quello di poter far valere la propria «primazia» sul territorio e guadagnare anche sui crimini commessi dai «calabresi». Ecco perché anche persone non affiliate al nuovo clan come Riviezzi e Campanella avrebbero offerto il loro contributo all’organizzazione dell’agguato.  

l.amato@luedi.it

 

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