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di ROMANO PITARO

NON potranno dire di essere state dimenticate. Come si fa con un libro noioso o un oggetto messo da parte perché non ci piace. C’è una Calabria che non dimentica, reagisce agli appelli, e che, se cresce, può fare la differenza.
Grazie all’iniziativa del Quotidiano, la “damnatio memoriae” è stata loro risparmiata. Il codice di mafia, che le vorrebbe vittime e carnefici, indissolubilmente legate alla “famiglia”, benché non abbiano mai potuto scegliere da che parte stare e quando l’hanno fatto sono state sopraffatte, per una volta è stato infranto. Considerato inaccettabile da ogni punto di vista.
L’opinione pubblica ora sa la verità. Dimenticate no. Vittime di un destino cieco e funesto, questo sì. Quale dio, dea o vitello d’oro, potrà comparire al loro cospetto per spiegare la ragione di tanta sofferenza.
Figurarsi le istituzione laiche, democratiche e vieppiù tecnocratiche. Preoccupato di spread e valori azionari – sempre badando a non calpestare i piedi alle potenti corporation che rappresentano l’ultima mostruosità del “capitale liquido” che vampirizza la politica – ma indifferente, rispetto all’umanità dolente delle donne contro la mafia, in questo Sud che più Sud non si può, lo Stato è come se non avesse parole.
Afono su una questione che mina la qualità della democrazia non di una regione spesso giudicata colpevole prima del processo, ma di un Paese che è parte dell’Europa e in relazione ad un cancro ramificato nel mondo intero.
Infatti, nessun ministro ha espresso un cenno di attenzione per Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Tantissimi politici di primo piano hanno espresso solidarietà, ma gli inquilini di Palazzo Chigi hanno taciuto sul tema e sulla mobilitazione del Quotidiano della Calabria sula ricorrenza dell’otto marzo.
Affaccendati in altre faccende, senz’altro. L’Italia li ringrazia per lo sforzo erculeo che prodigano per evitarle il destino greco, ma è anche vero che questo Stato per le tre donne, emblema di una reazione coraggiosa alla mafia ma anche di un Mezzogiorno sovraccaricato di emergenze sociali che rischia di scoppiare, è come se non avesse “cuore che gli batta in petto”.
Suscita qualche riflessione questo silenzio verso donne costrette in un vicolo cieco in cui l’unico linguaggio è un codice violento e cacofonico. Ma qui, oggi e adesso, grazie al Quotidiano le tre donne le ricordiamo tutti e con loro ci sentiamo solidali.
Non soltanto perché soggetti cruciali di un canovaccio raccontato in ogni foggia da storici ed esperti di mafia, ma perché loro, in un certo senso, sono una parte di noi stessi. Che il più delle volte non intendiamo neanche guardare, tant’è sconvolgente. Con cui evitiamo di fare i conti, perché ci spaventa. Queste tre donne sono lo specchio di una parte consistente della realtà in cui siamo immersi, nel bene e nel male. Sono parte dell’aria ammorbata che respiriamo; e se loro sono già finite nel cappio teso da una società diseguale e ingiusta, in fondo noi ci giriamo intorno. Sperando di farla franca. Lo sfioriamo quotidianamente quel cappio, e spesso lo scansiamo per un pelo. Per caso. O per la scaltrezza che discende dall’istinto di sopravvivenza che, per tenere a freno la coscienza, chiamiamo maturità.

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