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Se io fossi il sindaco, sarei una frana. Non è un lavoro facile, quello di governare una città. È un lavoro a perdere. È come provare a far crescere una foresta mentre fanno notizia gli alberi che cadono. E non importa quanti ne crescono, sono quelli che cadono a colpirti in testa.

Per me, che ho un’immaginazione definitivamente fumettistica, fare il sindaco assomiglierebbe molto a continuare a sentire nelle orecchie tutte le voci di tutti i cittadini insieme, le maledizioni per i tombini, le strade intasate, le cose che non funzionano. Io per primo, da singolo abitante, quando prendo una buca con la vecchia Guzzi penso: «Sindaco, vecchio mio, ti addebito la spina dorsale». O quando vedo qualcosa che non mi piace, il primo istinto è chiedermi dove ha la testa chi ci governa.

Ma basta entrare in un bar, o andare a cena da amici. O partecipare a una riunione politica dei tuoi stessi alleati, di qualsiasi fazione siano: fare il sindaco è cucirsi addosso un bersaglio e farsi ricoprire di puntatori a infrarossi.

Fare il Sindaco assomiglia a Charlie Brown che gioca a tennis con un garage: per quanto ti muovi bene, la palla ti ritorna sempre indietro. O, se preferisci, fare il sindaco è un po’ sentirsi addosso la faccia di Morgan Freeman che guarda sornione Jim Carrey mentre si rende conto di come sia difficile essere Dio e accontentare tutti.

Ecco, se io fossi il sindaco, prima di tutto proverei una sincera diffidenza per tutti coloro che iniziano un ragionamento con frasi tipo «Io, se fossi il sindaco».

Però fare il sindaco in una città come Potenza, una volta che hai scelto di farlo, può e deve essere soprattutto una bella sfida. La città ha una lunga lista, infinita, di problemi. Alcuni di questi sono oggettivi, la crisi, il bilancio, la posizione orografica, la carenza di infrastrutture, una storia troppo recente e disordinata di urbanizzazione. Persino i terremoti.

Altri problemi sono congiunturali, e forse soggettivi. Pesco a caso tra le mie idiosincrasie: una classe politica troppo litigiosa per i miei gusti (anche qui non importa da che parte, ma la Storia racconta che litigando non si è mai fatto progresso). Tuttavia, se dovessi scegliere, il vero dramma collettivo è forse più che altro la mancanza di una visione per il futuro. Non puoi avere visone per il futuro se da sempre non vedi le cose cambiare. Quando una città vede il futuro come ripetizione del passato, comincia a non credere più ai tempi verbali. Al massimo sei un periodo ipotetico.

Io non farò mai il sindaco, né aspiro a farlo. Non sono capace di fare politica, non ne possiedo il linguaggio, non credo nemmeno mi interessi. Anzi, ne sono sicuro. Per certe cose serve vocazione e io resto un incrocio tra un nerd, un bibliofilo e il lavoro del parrucchiere di Bruce Willis. Ma ci sono alcune cose che credo fermamente e che si potrebbero fare. Questo perché, forse ne siamo stati informati, il nostro orologio segna con molta crudeltà il tempo che scorre in un secolo, il XXI, che è molto diverso da XX cui siamo ancorati.

Potenza, se mi passi la metafora, potrebbe essere quello che era una miniera di diamanti in un secolo in cui le città prosperavano sulla presenza delle risorse scarse. I diamanti, si dice, sono per tutta la vita. Ma anche questo luogo comune non sarebbe stato coniato se i diamanti si trovassero a ogni angolo.

Oggi la risorsa scarsa su cui crescono le grandi comunità sono i dati, le intelligenze e la circolazione delle idee. Non serve più essere un grande crocevia di commercio (ok, aiuta, certo, ma non è più fondamentale). Non serve avere collegamenti veloci per spostare le persone, perché le idee viaggiano molto più in fretta. Certo, far spostare anche le persone è utilissimo: ma serve tanto denaro e tanto tempo. Per far spostare le idee e generare circoli virtuosi bastano pochi soldini e un po’ di visione.

Tu cosa sceglieresti se dovessi spendere 100 per ottenere 50 in tanti anni o se dovessi spendere 10 per avere 100 in un tempo minore?

Persino un bilancio dissestato può trovare le risorse per far circolare le idee. Il problema è settare le priorità, impostare una visione.
La politica, purtroppo, secondo tutte le ricerche, di rado riesce a farlo. Lavora sui problemi contingenti, perché insegue le domande dei cittadini. Ma senza pensiero telescopico, senza sapere che città vogliamo essere tra 5 anni, o tra 10, il passato sarà sempre una copia del futuro. O viceversa.

Così ecco, mentre il sindaco mi maledice per l’esordio «io se fossi sindaco», forse possiamo ragionare insieme su una ricetta. Accettiamo insieme il presupposto che la città sia piena di forze vive, di voglia di fare, di «idee», ancora una volta. Sono elementi forti, potenti nel secolo della conoscenza.

Non saremo mai una Silicon Valley o una Firenze dell’epoca dei Medici. Ma entrambi questi esempi hanno una cosa in comune: fanno circolare rapidamente le idee migliori delle menti migliori in uno spazio ristretto. Possiamo imparare qualcosa.

Progettare un modello simile non è costoso. Internet e il digitale ci consentono di superare gli antichi limiti geografici. Dobbiamo solo provare a investire su un’educazione «non tradizionale» che affianchi quella dell’istruzione. Dobbiamo esporre i cittadini a idee nuove, perché come disse quel tale, «se la tua unica idea è un martello, tutte le tue soluzioni sembreranno chiodi da battere».

Le barriere di accesso a questo modello sono sempre più basse. Oggi per poche decine di euro chiunque può mettersi in tasca 100 grammi di tecnologia connettiva così potente che uno scienziato della Nasa negli anni sessanta la definirebbe tecnologia aliena. In questi dispositivi c’è dentro un mondo: ci sono persone, ci sono esempi, c’è pensiero, ci sono soluzioni cui magari non abbiamo pensato semplicemente perché non le conoscevamo.

Questa roba qui si chiama cultura, ma non è la cultura degli eruditi, è il sistema nervoso della società. È una infrastruttura, poco costosa e disponibile, che lavora su due punti importanti per ogni comunità che pensa allo sviluppo. Il primo è l’accesso (accesso al pensiero, esposizione alla differenza, stimolo, creatività).

Il secondo è un termine di quelli cui la lingua italiana non si è ancora adattata: matchmaking. Questa parola un po’ anglofona un po’ tecnologica riassume l’incontro tra un bisogno e chi ne ha bisogno. Le nuove tecnologie (meno costose di un singolo svincolo autostradale, ma più utili per la società) ci consentono di elaborare una quantità enorme di dati, che un pool di singole menti non potrebbe affrontare mai da solo.

Oggi abbiamo gli strumenti. Ma abbiamo la voglia di progettarli per asservirli alle nostre necessità?
Matchmaking significa massimizzare le opportunità. Incrociare i dati in modo che siano utili per aumentare la qualità della vita. Questo significa darci la possibilità di costruire nuove relazioni, di costruire nuovi scambi, di creare servizi più efficienti. Certo, è delegare alla tecnologia una parte dell’intelligenza della città, ma chi potrebbe rinunciarci oggi?

Nessuno, specie se si pensa che queste tendenze non sono destinate a tornare indietro. Una città analogica ha il suo valore umano, ed è una delle cose che amiamo di Potenza. Ma una città analogica che usa la capacità del digitale, se sa progettarne bene le applicazioni, è una città che massimizza il suo capitale umano.

Però qui si torna al vecchio errore di sempre. Dobbiamo imparare a pescare, non distribuire pesci. La tecnologia la abbiamo (uno smartphone base costa meno di una cena in un buon ristorante e persino i ragazzini ne hanno un tasca), ma quanti di noi ne sanno utilizzare appieno le potenzialità? Quanti di noi lo usano per crescere? Che tipo di supporto forniamo a questa istruzione che evolve rapidamente e che non può essere gestita con i vecchi modelli?
Io ci scommetterei. Potenza può diventare un grande centro italiano di eccellenza del digitale. Dobbiamo solo cominciare a fare sistema, a far entrare nel nuovo secolo anziani, bambini, e dirigenti. E tutti quelli che hanno qualcosa da dire. Perché – come scrivo spesso – più circolano le idee, più la qualità delle idee aumenta.

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