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ERA di settembre ed avevo passato la notte accanto al falò acceso da alcuni giovani lucani e non, sul sagrato in cima al monte. 

Essi avevano pregato, cantato, bevuto un po’ di vino per riscaldarsi dentro, convinti di bilanciare il freddo della notte che li circondava a quell’altitudine di oltre 1700 metri. Venne l’alba e, per attenuare il freddo penetratomi nelle ossa, entrai nella chiesetta. Sedeva su un banco una donna dai capelli bianchi e col viso era scavato dal vento.
In una mano ruvida teneva aperto un sacchetto di plastica e con l’altra, ruvida anch’essa, portava alla bocca dei tarallucci cavati da quel sacchetto. Sottovoce dissi sorridendo: “Mangiate in chiesa?!” E lei, in dialetto e con tono di rimprovero: “Statt’ citt’ tu, quest’ jè la casa mij“ (sta’ zitto tu, questa è casa mia). Non disse altro, come se ritenesse inutile aggiungerne nuove parole.
Notò la mia perplessità e dopo un po’ con un gesto della mano mi chiamò a sedermi accanto e mi parlò in un italiano che stentai a capire: ”Un figlio tagliò la testa alla madre ma lei invece di morire piangeva. Il figlio si arrabbiava per quelle lacrime e lei gli disse, più con gli occhi che con la bocca, ‘piango perché ti amo ancora’”. Sorrisi senza capire. Passò qualche anno perché ne cogliessi il significato.
Pensai al nucleo centrale della sua risposta: “questa è casa mia”. E’ un’espressione recante sempre con se una molteplicità di messaggi che vengono da dentro, dalle profondità della vita: con “casa” noi intendiamo il luogo in cui è custodita la nostra infanzia, il ricordo di persone che ci hanno cresciuto e sulle cui ginocchia ci siamo addormentati per essere svegliati con una carezza. ‘Casa mia’ è il ricordo di persone che ci hanno amato. E’ la custode dei nostri sogni non avverati, dei rimpianti per una vita che non si è riusciti a vivere come la si voleva. E’ il luogo in cui rifugiarci con tutte le nostre disillusioni e con la speranza, proclamata soltanto a noi stessi, che un giorno qualcuno, forse, ci compenserà di tutti i nostri fallimenti, di tutte le nostre manchevolezze.
Le parole a lei legate sono di vita: infanzia, persone che ci hanno cresciuto, amato, rimpianti, fallimento, speranza… Tutte insieme trovavano rifugio in quella chiesetta in cui non si è giudicati per la miseria che esse possono esprimere. Vengono portate nel santuario da esseri fatti di terra, loro origine e loro corona, i quali sanno di non essere giudicati come spiriti puri, proprio perché capaci anche di “tagliare la testa” non alla propria madre ma alla Madre.
La frase ascoltata ricordava che qui, come negli altri santuari lucani e nei rapporti con Maria, la pietà è vissuta principalmente dalle donne in forma concreta. Stanno impalate in piedi o sedute con aria serena o turbata, ma tutte con la certezza di trovarsi a casa. Non nella casa di una matrigna tremenda, come descritta Carlo Levi.
A Viggiano il discorso va esteso anche ai contadini, ai pastori, braccianti, a tutti quegli uomini insomma che avevano a che fare duramente con la terra e viventi nelle miserevoli condizioni di povertà, di sfruttamento, di mortificazione ampiamente descritte dalla letteratura antropologica e storica. Tra l’altro, molti di loro in passato arrivavano in cima al monte con un sasso appeso al collo a simboleggiare la fatica della salita per un sentiero di polvere e pietre, sopportata in onore di Maria, oppure per il pentimento dei peccati commessi, o per soddisfare una promessa per grazia ricevuta. Lo si depositava davanti al santuario o anche ai piedi dell’effige mariana al suo apparire sul sagrato. Tutti questo ieri.
Oggi a Viaggiano è possibile incontrare ancora molti contadini sopravvissuti e segnati dai vizi piccoli borghesi televisivi e decorati di telefonino. La loro dignità sociale è stata riscattata in pieno? Essi vengono tuttavia con fiducia a Maria, per venerarla e parlarle dei loro “nuovi” bisogni: per un posto al figlio disoccupato, per la liberazione del figlio dalla droga demoniaca, per la salvezza di un matrimonio, per guarire da una brutta malattia, per salvarli dall’inquinamento, per…e ancora per….Il popolo dei fedeli viene qui sempre numeroso, va a trovare la Madre nella casa sul monte, poi l’attende giù in paese e qui punta lo sguardo carico di speranza verso il palco su cui Ella troneggia! E’ uno sguardo che passa sopra le teste degli uomini del potere regionale, raccolti in un recinto, in bella vista, separati da lui, popolo di speranza. Il quale, se potesse, chissà, chiederebbe loro di fare un voto: non venire, almeno per un anno, a Viggiano per lasciarlo da solo con la sua Madonna.
A livello colto va ricordato che sul finire dell’Ottocento fu rappresentata al Teatro alla Scala di Milano il dramma pastorale musicale dal titolo “Viggiano” composto da Vincenzo Ferroni, nato a Tramutola nel 1858, insegnante a Parigi e poi direttore del Conservatorio di Musica di Milano dove fu maestro di Puccini e Mascagni. Tale dramma narra il ritrovamento della statua mariana sul monte, la devozione dei pastori e il culto tributato dai contadini lucani.

 

 

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