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«IO lavoravo in fabbrica. Una volta sbagliai una ventina di pezzi e, per punirmi, mi hanno sospeso per due giorni. E quelli erano pezzi di ferro. Quei medici, quell’ostetrica, invece, avevano in mano una vita umana. Ma nessuno di loro, che io sappia, è stato punito».

E’ come un vaso di Pandora il San Carlo in questo momento. Dopo i veleni e le accuse relative alla Cardiochirurgia, sembra essersi aperto uno squarcio che ora lascia emergere tante storie di dolore. Come quella che vede protagonista il piccolo Lorenzo Galotta, nato morto in una sala parto del San Carlo.

E’ il maggio del 2006. La sera del 12 maggio la signora Galotta e suo marito arrivano al Pronto soccorso del San Carlo. La gravidanza, tanto cercata e finalmente arrivata dopo diversi aborti spontanei, è al termine. «Una gravidanza filata liscia come l’olio – dice Giovanni Galotta – senza nessun problema. E neppure quella sera sembravano essercene». Ci vuole un po’ di tempo, così la donna viene ricoverata, il marito torna a casa.

«Torno la mattina e lei è già in sala parto. Ha già attaccato l’apparecchio che serve per monitorare il battito cardiaco del bambino. E già c’è, evidentemente, qualche problema, perchè il battito a volte si sente a volte no e loro danno la colpa al fatto che mia moglie aveva qualche chilo in più. Non era quello il problema, ma in quel momento non potevamo immaginare quello che stava succedendo. Dopo un’oretta arriva un altro medico che si accorge che la situazione è gravissima e impone il cesario d’urgenza. Ma a quel punto, con le contrazioni avviate, anche fare l’anestesia era problematico. Passano minuti interminabili e quando riescono a tirar fuori il bambino è ormai tardi. Lui non respira più».

I signori Galotta sapranno poi che il bambino è rimasto senza ossigeno: a causa delle contrazioni il cordone ombelicale è stato schiacciato togliendo al piccolo l’ossigeno necessario.

E così quella casa che aspettava l’arrivo di un bambino è stata travolta dal dolore. «Era tutto pronto, la mamma aveva voluto sistemare tutto prima di andare in ospedale. Avevamo la culla, il passeggino. Sono ancora tutti accatastati in una stanza, non abbiamo più potuto utilizzarli». La denuncia contro l’ospedale che ha tolto loro quel figlio lungamente atteso, è inevitabile. «Ma va a rilento – continua Giovanni Galotta – tanto che, su suggerimento del nostro avvocato, decidemmo di chiedere il risarcimento danni direttamente all’ospedale. Risarcimento che venne pagato dall’azienda sanitaria, evidentemente consapevole che la resposabilità di quella morte era dell’ostetrica e dei medici».

Così si chiude la causa civile, mentre resta in piedi quella penale e il prossimo 3 ottobre è prevista un’udienza, dopo un elenco di rinvii. «Io lo so che non otterremo nulla. Sono piuttosto convinto che questo caso cadrà in prescrizione. Ci sentiamo ripetere solo “Che vogliono questi, i soldi li hanno già avuti”. E io mi pento anche di averlo accettato quell’accordo. Non è una questione di soldi, c’era una vita umana. E vorrei solo che si sapesse come spesso vanno le cose. Così come vorrei che qualcuno pagasse per un grave errore che è costato la vita. Io ho pagato per dei pezzi di ferro, perchè nessuno prende seri provvedimenti contro chi ha nelle mani la responsabilità di una vita?».

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