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DA CHE mondo è mondo le città nascono, si trasformano, qualche volta muoiono.

Opporsi al cambiamento non è sbagliato, è inutile: raramente la storia riconosce le ragioni dei vinti. Ma non tutte le città, parafrasando il noto incipit tolstoiano, muoiono allo stesso modo.

Con il moderno, poi, si verifica un fenomeno inedito nella storia dell’umanità. Fino all’inizio dell’Ottocento anche le città morte non erano mai veramente morte: la loro anima sopravviveva alla corruzione delle cose operata dal tempo;  i loro ruderi continuavano a parlare ai vivi alimentando i sogni e il desiderio di riscossa dei popoli (basti pensare al Risorgimento e alle suggestioni dell’antico esercitate su poeti come Foscolo e Leopardi). E tuttavia, è soprattutto con il prevalere della civiltà dello spettacolo e del  consumismo che le città cominciano a morire in un modo del tutto nuovo e sconosciuto all’antico. Pompei può essere considerato il primo caso. Assistiamo allora a uno svuotamento di senso – radicale, dal di dentro – delle città, in un tentativo spesso riuscito di disanimarle e reinventarle dal nulla. Le città diventano simulacri a volte inquietanti, in cui ciò che si inscena è una rappresentazione artificiale e fittizia della vita. Museale, appunto.

E’ ciò che sta accadendo a Matera? Lo teme Andrea Di Consoli, il quale avverte che “realizzare compiutamente questa metamorfosi (in senso turistico) della città significa mummificare definitivamente luoghi, memorie e habitat che appena ieri furono vivi, caldi, brulicanti di vera vita e forti di una secolare identità…”. Un’identità ormai smarrita, “sempre che avere un’identità – aggiunge sconsolato lo scrittore -, sia un “valore” ancora utile a quest’Italia ormai incapace di fare la Storia e perciò costretta a “vendersi” quella che seppe fare, anche con le pezze al culo, in secoli e secoli di tribolazioni e di sofferenze inaudite”.

Insomma, per Di Consoli, “una grande storia è naufragata e ora si vive contemplandone le rovine, che però fruttano un benessere intelligente, anche se è angusto nella misura in cui è frutto della morte di una Civiltà”. Ma se le cose stanno come dice lo scrittore originario di Rotonda (ed è lecito dubitarne, dal momento che Matera non è circoscrivibile ai Sassi) la domanda da porsi è un’altra. E cioè: quando e perché una città si trasforma o comincia a morire? Infatti, soltanto se siamo capaci di dar risposta a questa domanda possiamo capire, ed eventualmente rimuovere, le ragioni di un declino o di una modificazione apparentemente inarrestabile o incongrua. Una città si trasforma forse  quando smette di essere la forma adeguata alla vocazione produttiva (o alla sua perdita) dei propri abitanti? Oppure: quando il suo tessuto e le sue architetture non sono più in grado di far lievitare le relazioni, anche estetiche, espresse dai nuovi contenuti del lavoro? Quando, in parole povere, smette di elaborare cultura? Ed è questo il caso di Matera? 

A sentire Raffaello De Ruggeri, non è così. “La cultura di una città – spiega il presidente della Fondazione Zetema – non è riducibile a un evento, né al turismo. E’ produzione. Una città è culturale se produce cultura, non perchè abbia eventi o turismo… Di Consoli non considera l’energia magnetica che Matera possiede…”.  Con la loro storia ultramillenaria, i Sassi, pare di capire, sono un serbatoio inesauribile di cultura. C’è lì, tra i pochissimi casi al mondo, una sedimentazione di segni tale che le più ardite codificazioni accademiche non basteranno mai a contenere. Anche volendo, l’uomo moderno, con la sua mania classificatoria, non riuscirà a ridurre quella storia a un mero campionario di voci enciclopediche o a un elenco di reperti museali. Infine, se mai si potesse dire l’ultima parola in proposito, vive tra quelle pietre un concentrato esplosivo di natura e umanità: un intreccio che a volerne seguire a ritroso le ramificazioni ci porterebbe, come è scritto nell’Antico Testamento, nei pressi di Dio. Una fonte di energia artistica e culturale, che al pari dell’Arca dell’Alleanza biblica (o spielberghiana, se si preferisce) solo gli eletti possono maneggiare, altro che azzerare.

Posto così il tema, si capisce che il cosiddetto levismo (ovvero la sua interpretazione corrente) non basta a esaurire il dettato su Matera, costituendone appena un minuscolo capitolo dentro una storia universale. Ma neppure può essere sottovalutato: vista l’influenza che lo scrittore di “Cristo si è fermato a Eboli” (o quel che se ne è voluto leggere) ha avuto sulla comunità locale. Non si può negare che una parte della città continua a descrivere se stessa con la sensibilità e gli argomenti di uno scrittore che ha fotografato, imprimendolo una volta e per sempre nel cristallino usato da una classe intellettuale pigra, un pezzo autentico, ma storicamente determinato, della società contadina materana. (E quando si dice che Matera è una città pericolosa e inconcludente, che ti sfibra con questa sua falsa arrendevolezza, non si riflette abbastanza sul fatto che sì, Matera è pericolosa, ma soprattutto per se stessa. Chi non ha notato che ci sono materani che non fanno che parlare della loro città e di se stessi? E che finiscono  per credere a quel che dicono, spesso soltanto per forza d’inerzia, senza sospettare che stanno semplicemente ripetendo discorsi fatti per  tutt’altre ragioni, fossero anche soltanto artistiche, da altri: di altri tempi, di altri luoghi?).

Per  De Ruggieri, il quale postula la vitalità inestinguibile di Matera, il problema è semmai capire “se esiste una classe dirigente all’altezza della città, in grado di realizzare quello che è possibile”. Sì, possibile: a patto, per dirla con lo stesso De Ruggieri “che si sia capaci di afferrare l’energia di ispirazione offerta dalla città”, di leggerne in positivo la storia: che è fatta di perenni rigenerazioni, infinite contaminazioni.

“Il turismo? E’ soltanto un tassello. Ciò che occorre è costruire le officine della cultura e aprirsi naturalmente al mondo”. De Ruggieri parla di officine non a caso. A sentir lui bisognerebbe finalmente riconoscere che la vera tradizione materana non è intellettuale, e forse nemmeno prevalentemente contadina, bensì legata al lavoro manuale, vale a dire a quella cultura che non soltanto viene prima, ma ha fondato il linguaggio e l’arte.  “Non si considera abbastanza – continua De Ruggieri – che i Sassi sono stati progettati  dai capomastri: i quali hanno acquisito, sulla propria pelle, un’esperienza e una sapienza millenarie. Altro che Venezia e Firenze: quelle sono città aristocratiche, noi siamo il frutto di una cultura povera. Povera ma, attenzione, non misera. La  lamentazione e il pessimismo conducono all’immobilismo, quello che noi abbiamo combattuto per 50 anni “. Si tratta di dunque cambiare l’angolo prospettico dal quale guardare alla propria storia. E di rivendicarne, soffocando il mito stantio della subalternità, l’autonomia. La città deve riconoscersi protagonista, e può farlo tramite la creazione e l’attrazione di cultura, sfruttando un’energia che le deriva dall’interazione di due poli potenti: la memoria e la capacità di riprodursi.

La cultura come attività produttiva, dunque. Su questo, a parole, sembrano essere tutti d’accordo. Anche Di Consoli, che pure mette in guardia sull’altissimo prezzo da pagare a una prospettiva di sviluppo che oggi non ha alternative. Ma quale cultura? E soprattutto: chi se ne dovrebbe fare interprete? E come? E’ questo il punto. La classe dirigente locale? Di Consoli ne dubita. E non è il solo. “Dove è la borghesia a Matera? – si chiede Emilio Nicola Buccico -, c’è ancora in giro qualche indomito borghese?  Dov’è la classe che sa interpretare e farsi carico dei problemi di Matera?”. E chiosa: “Credo che questo sia il periodo più buio della storia delle classi dirigenti della città”. Un tale pessimismo riposa, in Buccico, sulla convinzione che, ormai da decenni, la borghesia cittadina si è liquefatta. Non c’è più nessuno in grado di progettare il futuro. “Abbiamo una classe dirigente camaleontica, passata indenne dal fascismo alla democrazia, incapace di un disegno unitario per il futuro. E il Comitato Matera 2019 ne è la esemplare rappresentazione”.

Classe dirigente sfinita, proposte frammentarie, cultura effimera: senza volerlo, forse, Buccico ci porta nel cuore del caso materano. E tuttavia: siamo sicuri che si tratti di una questione soltanto materana? E poi, anche a non voler considerare che proprio Matera ha conosciuto, negli ultimi venti anni, uno sviluppo turistico che ha pochi eguali in Italia, come si fa a non vedere che i problemi della città (dal declino della politica alla bolla industriale, alla crisi agricola) sono soltanto in parte ascrivibili alle defaillances della borghesia locale? La quale ha le sue colpe, beninteso. Ma le cui responsabilità vanno  commisurate all’effettiva capacità di incidenza nell’economia reale e, soprattutto, condivise con uno Stato fortemente burocratizzato che da anni  delega alle Regioni il potere di investimento dei fondi – straordinari, nazionali ed europei -, nell’economia e nelle infrastrutture. E quanto ha contato, quanto conta ancora, nel bene e nel male, la presenza dello Stato, attraverso il politico-imprenditore, nella storia di Matera?  E la trasformazione dei Sassi non nasce – certo, sull’onda dello sdegno sollevato da autori come Levi -, da un intervento dello Stato? Se la stessa decisione di abbandonare quelle grotte maleodoranti, oppure di riqualificarle, fosse stata la conseguenza di un naturale progresso civile ed economico di Matera (come tante volte nella storia delle città è accaduto) non staremmo qua a parlare del’ innaturale destino di un antichissimo e prezioso insediamento umano.

Allora ha ragione Roberto Moliterni a sostenere che i Sassi non sono Matera. Piaccia o no, Piccianello, La Martella, San Giacomo sono la città.  E sebbene nessuno ne parli, “quelle classi subalterne che hanno costruito la meraviglia dei Sassi e che vengono nostalgicamente rimpiante non sono sparite, cancellate dalla deportazione”. Vivono, appunto, nei borghi nuovi.“Operatori di call-center, i braccianti dell’era contemporanea, sono mischiati a operai o ex-operai, a pensionati che non riescono a vivere senza andare ogni giorno a guardare il proprio fazzoletto di terra in campagna”. Saranno questi ultimi, forse, con il loro senso pratico della vita, ad alleviare le angosce degli intellettuali. Come i due ragazzi di cui parla ancora Moliterni: “Operai nei salottifici, prima cassintegrati, poi licenziati, si sono reinventati come gestori di un bed & breakfast. L’opportunità non è stata solamente di sopravvivenza economica, ma soprattutto di crescita personale. Li ho visti prima, li vedo adesso: sono cambiati. Sono più felici. Mi raccontano di amici che hanno in tutto il mondo e che hanno conosciuto grazie a questo lavoro e con i quali ancora si sentono. Mi dicono che sono orgogliosi di essere apprezzati per il lavoro che fanno, mentre prima, in fabbrica, non sapevano nemmeno che cosa fosse un complimento. Prima, in fabbrica, per tutto il giorno compivano una gamma di tre, quattro gesti, sempre gli stessi, e non potevano parlare con nessuno. Quando Andrea dice che la Matera di oggi non gli piace, io gli dico che mi piace di più. Che il sorriso che hanno oggi queste persone è più bello di quello che avevano ieri”.  

a.grassi@luedi.it

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